Nencini, ora o mai più: «Vincere mi manca e se tornassi indietro proverei ad andare all’estero»

Nencini
Tommaso Nencini in una foto d'archivio alla Firenze-Empoli
Tempo di lettura: 5 minuti

Tommaso Nencini si era dato un obiettivo: vincere almeno una gara prima di salire in altura. Ci è andato vicino: secondo alla Firenze-Empoli, sesto a La Torre, quarto al Polese, terzo a Possenta, secondo ad Ardigo. Ma non ci è riuscito.

«E non ti nascondo che un po’ mi pesa. Non voglio farla diventare un’ossessione, farei ancora peggio, ma per un corridore come me, completo e con qualche successo nel palmarès, non essersi ancora sbloccato non è il massimo. Non posso fare altro che rimanere fiducioso in vista della seconda parte di stagione. Siamo quassù proprio per prepararla al meglio».

Quassù dove, Tommaso?

«Dal 5 al 10 siamo stati sullo Stelvio, fino a dopodomani invece rimaniamo a Livigno. Con me ci sono Montanari, Tedeschi, Tsarenko e Tarolla, un ragazzo della Gallina che a breve comincerà a correre con noi. Stiamo trovando bel tempo, non ci possiamo lamentare. Usciamo alle 10, prima fa freddo, e rimaniamo fuori fino alle 15. Poi pranziamo, ci rilassiamo e scambiamo due chiacchiere. Un buon modo per approcciarsi all’estate».

Quali sono i tuoi prossimi appuntamenti?

«Intanto direi il Giro del Veneto, una corsa a tappe di buon livello dove posso provare a vincere una tappa. E poi penso al Città di Brescia, in programma il 4 luglio. Lo scorso anno arrivò secondo un mio compagno, Quartucci, ora professionista alla Corratec. Io ero al debutto, ma ci ho preso le misure e qualcosa penso d’aver capito. Bisogna stare sempre davanti, è un terno al lotto, non sai mai se attaccare o limare. Ma sono convinto che, se scenderò bene dall’altura, qualcosa possa venir fuori».

La tua stagione è cominciata ormai quattro mesi fa, il 25 febbraio: secondo alla Firenze-Empoli, che tu vincesti nel 2021 promettendola a Provini nel ritiro invernale.

«Ma quell’anno stavo meglio, avevo delle sensazioni migliori. A febbraio non stavo male, altrimenti non sarei arrivato secondo in volata, ma non ero il Nencini di due anni fa. Quel giorno non ho sbagliato niente, ho dato il massimo e non è andata poi male: soltanto ho trovato un Della Lunga più forte di me. Però dell’inizio della mia stagione potevo solo essere contento, non uscivo dai primi dieci».

E poi cos’è successo?

«Un calo fisiologico, niente di drammatico. E poi, come sempre, ogni gara ha la sua storia e può entrare in ballo anche la sfortuna. Nella prima corsa della Due Giorni Marchigiana, ad esempio, io ero all’attacco coi due fuggitivi che poi sono stati ripresi ad appena due chilometri dalla fine: peccato che io fossi caduto quando ne mancavano quaranta. Non dico che avrei vinto, ma quantomeno potevo giocarmi il podio di una corsa internazionale».

All’inizio di aprile, Amadori ti ha convocato in nazionale per partecipare al Circuit des Ardennes, ma la campagna francese non è andata benissimo.

«No, purtroppo devo darti ragione. E’ stata un’esperienza, senz’altro, ma è impossibile reputarla positiva. Il livello era alto, c’erano development e formazioni abituate a correre regolarmente coi professionisti, e io ho sofferto dall’inizio alla fine. Lo dico senza giri di parole, probabilmente ero uno dei corridori più scarsi del gruppo e si è visto. In compenso, ho capito una volta di più cos’è il ciclismo, quello vero».

Quali difficoltà hai incontrato?

«E’ un ritmo diverso, c’è poco da fare. E’ quello che contraddistingue il professionista dal dilettante o dal semiprofessionista, la capacità di saper sopportare certe andature per chilometri e chilometri. E poi era una guerra dal primo all’ultimo chilometro, tutti volevano stare davanti per via delle strade strette e dei continui cambi di direzione. A me prendere vento in faccia non ha mai spaventato, ma in Francia ho trovato pane per i miei denti. Hanno un’altra mentalità, la corsa è corsa sempre».

Col senno di poi ti è mancata, in carriera, la competizione internazionale?

«Ma certo, confrontarsi coi coetanei stranieri in paesi diversi dall’Italia è un’esperienza che dovrebbero fare tutti. Manca a tutti quelli che non hanno la fortuna o il coraggio di farla, senza dubbio. Tornassi indietro proverei a cercare una sistemazione in un altro paese, tra Francia, Belgio e Olanda. Ma io ho conosciuto un altro dilettantismo, quello precedente alla pandemia, in cui ai giovani veniva consigliato un percorso diverso. Andare all’estero non era sdoganato come lo è oggi».

Sei al quinto anno nella categoria, al primo tra gli elite. Il ruolo di chioccia ti appartiene?

«Non devo essere io a dirlo, chiedetelo a chi mi sta intorno. Sai, Provini ci chiede di tenere compatto e armonioso l’ambiente della Hopplà, ma poi l’ultima parola è la sua, non la mia. E’ un sergente di ferro, lo sanno tutti, ma i ragazzi rispondono bene. Io, al massimo, lascio passare la tempesta, poi li prendo da parte e spiego loro alcuni meccanismi. Di certo, quando sono arrivato io tra i dilettanti nel 2019, i giovani venivano trattati diversamente».

Ovvero?

«Godevano di minor considerazione. L’idea è che dovessero crescere con calma, prendendosi poche responsabilità e mettendosi a disposizione dei più vecchi, salvo rari casi e rare occasioni. Oggi, invece, se c’è da dare una possibilità a qualcuno la si dà ad un primo o ad un secondo anno prima che scada il tempo a loro disposizione. Devo dire che ancora oggi, spesso e volentieri, a salvare il bilancio di tante squadre sono gli elite, ma buon per i giovani che hanno più chance di quelli della mia generazione».

Da quest’anno in squadra c’è anche Gomez. Vi pestate i piedi oppure no?

«Direi proprio di no, è dall’inizio della stagione che corriamo insieme e andiamo piuttosto d’accordo. Il problema non si pone nemmeno, sono il primo a riconoscere che lui è un velocista più forte di me, quindi quando c’è Gomez e la corsa è piatta si lavora per lui senza tanti discorsi. Io magari vado in fuga, permettendo a lui e alla squadra di rimanere al coperto, e Gomez entra in ballo nel finale. Nessuna invidia, nessun dualismo: proviamo a giocare di squadra meglio che possiamo».

Cosa ti manca per far parte stabilmente del professionismo?

«Il loro ritmo, ma quello si prende strada facendo se ne avrò l’opportunità. Qualche vittoria in più, senza dubbio. E poi la costanza, senza quella non si va da nessuna parte. Provini me lo dice sempre, per attirare l’attenzione delle squadre professionistiche non servono dieci successi, ma essere regolari ad alti livelli da febbraio a ottobre, dalla Firenze-Empoli ad Acquanegra. Credo abbia ragione, è la strada che abbiamo intrapreso. Speriamo sia quella giusta».