Aspettando Kajamini: «Sogno di riscattarmi andando all’attacco sulle salite del Valle d’Aosta»

Kajamini
Florian Kajamini in azione durante questa sua stagione di rivalsa (credit: Benedetto/SprintCyclingAgency)
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Lo scorso anno, e per parecchi mesi, le giornate di Florian Kajamini erano scandite dalla frustrazione e dall’incertezza. Tutto era cominciato con un dolore al ginocchio destro. Passato quello, aveva cominciato a fargli male il sinistro.

«A volte mi cambiavo, uscivo e dopo cento metri, alla rotonda, dovevo tornare indietro dal dolore. Quando andava meglio riuscivo ad accumulare alcune decine di chilometri, ma poi ero costretto a chiamare a casa per farmi venire a riprendere. Ciò che più m’infastidiva è che non si riusciva a trovare una diagnosi. Gli altri si allenavano e correvano, io invece ero fermo a casa senza capire cosa c’era che non andava. Poi, finalmente, l’abbiamo scoperto».

Qual è stata la diagnosi?

«Sindrome femoro-rotulea. Il ginocchio non lavorava in asse e quindi mangia la cartilagine. Ho dovuto fare diverse iniezioni di acido ialuronico, ma quantomeno col tempo la situazione si è risolta. Ma la stagione passata, la mia prima tra i dilettanti con la Colpack, rimane comunque da dimenticare».

Come mai?

«Non appena mi sono ripreso, mi ha fermato un tampone positivo. Poi, mentre mi allenavo con una squadra delle mie parti, in un tratto di discesa un ragazzo mi è caduto davanti e sono rovinato a terra anche io, rompendomi lo scafoide. Mi hanno ingessato fino alla spalla. Era già agosto, intestardirsi non aveva senso. Ho partecipato soltanto ad una gara».

Si dice che la vita si capisce stando male.

«Confermo, nel mio piccolo. Adesso dico a me stesso che se ho superato l’anno scorso posso resistere a quasi tutto. Mi rendo conto che nelle situazioni più complicate riesco a rimanere più lucido e più saldo rispetto a tanti miei compagni e colleghi che, invece, si lamentano e si abbattono più facilmente. Ho capito che ci sono dei momenti in cui non si può far niente: soltanto soffrire, prendere quello che viene, aspettare e sperare che tutto torni alla normalità il prima possibile».

Valoti
Gianluca Valoti della Colpack-Ballan in una foto d’archivio al velodromo di Grenchen per il Record dell’Ora di Ganna

La tua seconda stagione alla Colpack, tuttavia, è iniziata con un paio di piazzamenti incoraggianti: nono alle Strade di Marco Pantani, secondo ad Albola. E Amadori ha deciso di convocarti per la Corsa della Pace in programma in Repubblica Ceca dall’otto all’undici giugno.

«Voglio ringraziare la mia famiglia per essermi stata vicino e la Colpack per aver puntato su di me anche quest’anno dandomi un’altra chance. Abbiamo fatto due ritiri da due settimane l’uno a Calpe, la stagione è cominciata bene e io me n’ero accorto fin da allora. Adesso non vedo l’ora che cominci il Valle d’Aosta, una gara dura e prestigiosa come quelle che piacciono a me. Mi farò vedere, in un modo o nell’altro».

Dobbiamo considerarti uno scalatore, quindi?

«Sì, non puro perché sono alto 1,75 e peso 62,5 chili, quindi non così minuto e leggero come altri corridori, però passista-scalatore si può dire. Fino ad un paio d’anni fa mi difendevo egregiamente anche a cronometro, difatti non mi dispiacerebbe riprendere in mano la disciplina. Saranno le mie origini olandesi, ma mi muovo bene anche nei ventagli. I miei genitori sono separati e io ho sempre vissuto con mia madre, appunto con la parte olandese della famiglia. Mio padre lo conosco poco e nulla, è stato quasi sempre assente, ma preferirei non parlarne».

Chi sono i tuoi scalatori di riferimento?

«Nibali e Contador, perché sostanzialmente sono cresciuto con loro. Di Nibali ricordo il successo alle Tre Cime di Lavaredo e quando ribaltò il Giro nel 2016, di Contador invece mi è rimasta impressa l’ultima vittoria sull’Angliru. A me la salita piace innanzitutto perché ci vado bene e mi sento a mio agio. E’ bello constatare che su certe pendenze gli altri soffrono più di te. Io vivo a Pianoro, sui colli bolognesi, e gli strappi non si contano. E’ più forte di me, senza nemmeno accorgermene nei miei allenamenti infilo sempre almeno qualche salitella».

Attaccante o calcolatore?

«Ultimamente, sbagliando, ho calcolato troppo e concluso poco. Ma è una questione di salute e fiducia nei propri mezzi: quando non si vede la luce in fondo al tunnel, o quando le gambe non ti supportano, è impossibile avere voglia e coraggio di rischiare. Ma nella stagione migliore della mia vita, la prima tra gli juniores nel 2020, attaccando riuscii a togliermi qualche bella soddisfazione».

Quindi tornare ad interpretare le gare con quel piglio può essere uno dei buoni propositi per quest’anno?

«Certo, perché no? Ad aspettare, va a finire che le opportunità le colgono gli altri. Secondo me correre all’attacco paga, le corse in cui si prova non sono mai buttate anche quando il risultato non arriva. Tutto sta nel convincersene. La testardaggine per provarci non mi manca. Non mi arrabbio mai, mentre invece sono un maniaco dell’ordine: deve essere tutto preciso, devo fare tutto come si deve. Ma nel ciclismo non si può avere sempre tutto sotto controllo, prima lo capisco e meglio è».