D’Aniello, la freccia del Sud: «Punto al Piva e a diventare un riferimento per la Campania»

D'Aniello
La vittoria di Immanuel D'Aniello al GP La Torre (foto: Walter Pettinati)
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A Sant’Antonio Abate, 33 chilometri a sud di Napoli, il ciclismo non è una delle priorità. Il calcio, invece, quello sì. E difatti Immanuel D’Aniello non nasce passista-scalatore, ma difensore centrale.

«E controvoglia, perché mi piaceva fare gol e volevo giocare in attacco. Ero uno dei difensori più prolifici in circolazione, ma non mi bastava. Me la cavavo bene, ma la passione in famiglia era un’altra. Per il pallone mi è rimasto un amore sconfinato. Tifo Napoli, quest’anno vorrei urlarlo. Prima avevo in Messi un riferimento generale, astratto: non si può non ammirare il più forte di tutti. Ma adesso Osimhen e Kvaratskhelia stanno riscrivendo la storia del campionato e della squadra: li sento vicini, ad ogni partita mi stupiscono sempre di più».

Al ciclismo D’Aniello ci arriva ad undici anni. Tardi, considerando che il nonno ha corso nelle categorie giovanili mentre il padre e lo zio si sono spinti fino ai dilettanti. La squadra in cui ha militato fino agli allievi è proprio del padre, Paolo.

«Per questo non mi pare giusto fare la vittima e dire che nessuno ha puntato su di me. Io ho avuto questa opportunità e l’ho sfruttata. Ho iniziato a viaggiare fuori dalla Campania quand’ero tra gli esordienti. Ricordo trasferte lunghe e leggere, percepivo il piacere della scoperta e della compagnia. Pressioni e responsabilità non sapevamo nemmeno cos’erano. Provare a vincere era un desiderio, non un dovere. Volevamo divertirci pedalando, niente più. Sono cresciuto nel mito di Pozzovivo, che per tanti anni ha vissuto a Sant’Antonio nonostante le origini lucane. E’ qui che ha sede il suo fan club. Abitava ad un chilometro da casa mia, me lo ricordo bene. Un riferimento sostenibile e concreto, non irraggiungibile. Ma un modello, assolutamente: per impegno, professionalità, umiltà, brillantezza».

A D’Aniello le vittorie non sono mai mancate, tant’è che tra gli juniores lo ingaggia la Lvf di Valoti e Della Vedova. Nel 2019 vivono un’annata irripetibile: 49 successi, un record per la categoria. Con D’Aniello ci sono corridori come Garofoli e Quaranta. Il seme del professionismo ha già cominciato a germogliare in lui.

«Arrivare lassù è il mio obiettivo ormai da diverso tempo. Non ho paura, semmai soltanto ambizione. Il professionismo, per me, è un mondo di cui posso far parte a patto di allenarmi, fare ulteriori esperienze e migliorare ancora. Semplice. Ormai sono più di dieci anni che un corridore delle mie zone non fa parte del gruppo. Non si può andare avanti così, serve un riferimento soprattutto per i più piccoli che si avvicinano. Essere quella figura, il ragazzo che ce la fa, è una responsabilità che mi piacerebbe prendermi. Però devo darmi una mossa, perché sono già al terzo anno tra i dilettanti».

Un’annata decisiva, la definisce D’Aniello. Se la quarta è l’ultima spiaggia, la terza è la passerella bianca: una volta terminata, o ci si butta in mare o bisogna trovare un posto dove non scottarsi i piedi. Immanuel deriva dall’ebraico e significa “Dio è con noi”: speriamo, deve aver pensato D’Aniello l’anno scorso, dopo tutti i problemi avuti.

«Nel 2021 ero uno dei debuttanti e ho fatto esperienza. Mi stava bene. Nel 2022, invece, volevo cominciare a raccogliere qualche risultato. Detto, fatto: prima un tampone positivo e poi una bronchite che mi ha obbligato a rimanere fermo per quaranta giorni. Ho iniziato a correre con continuità in estate: decimo nell’ultima tappa del Giro del Veneto e undicesimo in classifica generale. Ma ormai il grosso era andato, rimanevano le briciole. Non ero io, avevo qualche dubbio sul mio futuro e sulle mie capacità. Mi serviva un inverno sereno e rifocillante, durante il quale poter allenarmi in silenzio e a testa bassa».

Quell’inverno è giunto, finalmente, e D’Aniello l’ha sfruttato come si deve. Non più con la maglia della Palazzago, bensì con quella della Trevigiani. Sui motivi del cambiamento non si sbottona, lasciando intendere che qualcuno potrebbe non aver gradito. Pare che dovesse andare ad un’altra squadra, prima che la Trevigiani si facesse avanti. Non gli è andata male: è una delle società sportive – occhio, sportive, non ciclistiche – più vecchie d’Italia e nell’organico ci sono corridori esperti come Baseggio, ed esperti e vincenti come Zurlo e Rocchetta.

«E infatti l’altro giorno, al Gp La Torre, mi ero schierato al via con ottime sensazioni. Ma per molti, me compreso, era la prima gara dell’anno, e non è mai semplice capire quanto realmente stai bene tu e a che punto sono gli altri. Io devo dire un grazie enorme a Zurlo, perché con la sua bella azione mi ha permesso di respirare nel drappello degli inseguitori. Poi ho attaccato due volte, con convinzione: la prima a qualche chilometro dall’arrivo e la seconda volta ai cinquecento metri, sull’ultimo strappetto, e non mi hanno più ripreso. Finalmente ho rotto il ghiaccio anche tra gli Under 23. Non vincevo da qualche anno, forse non mi era mai successo».

Ha battuto gente buona: Milan, Zamperini, Romele (e più staccati Nencini, Di Felice, Comin). E ha avuto l’ennesima conferma che i percorsi impegnativi e vallonati sono i più adatti alle sue caratteristiche di passista-scalatore, alto 176 centimetri e pesante 62 chili.

«Da spettatore, le corse a tappe mi sono sempre piaciute di più. Le trovo più entusiasmanti, è il gusto della battaglia che si rinnova ogni giorno. Metto Giro e Tour sullo stesso livello, ma il ricordo televisivo più nitido che ho è della Grande Boucle: Nibali che stacca gli altri scalatori sul pavé insieme ad un compagno di squadra mentre Boom vince quella frazione. Adesso mi aspettano alcune gare in cui difficilmente potrò dire la mia, quindi aiuterò i miei compagni (a volte per chiamarli usa un sinonimo indicativo, amici, forse un retaggio dei primi viaggi in macchina).

«Ma dal 2 aprile in avanti la situazione diventa interessante: in Veneto ci sono le classiche internazionali e la squadra vuole ben figurare. Se proprio devo sceglierne una, dico il Piva: mi alleno quotidianamente su quelle strade. Perché adesso vivo a Montebelluna, dove ha sede il ritiro della squadra. Cosa mi manca della Campania? Il sole, soprattutto. Qui c’è sempre freddo e nebbia. Ma se una persona ha la possibilità di inseguire il proprio sogno, non c’è sacrificio che non valga la pena fare».