Un Pantani che nessuno ha mai visto: la casa oltre la ferrovia, il suo chiosco e il Tour Malet (che era un panino)

Pantani
Marco Pantani con la maglia rosa al termine del Giro d’Italia 1998
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Di Marco Pantani sapete tutto. Avete visto e rivisto, letto e riletto, sospirato e pianto. È diventato epica, tragedia, addirittura giallo. Poi c’è Panta, quello vero, quello che non parlava di sé in terza persona come nelle interviste, quello che sapeva sorridere e qualche volta ridere, e c’era una cicatrice – traccia di uno dei tanti scontri con la sorte – che la notavi soprattutto quando rideva, ce l’aveva sul labbro. 

C’erano i giorni freddi, lontani dalle corse, quando arrivavi a Cesenatico e lo aspettavi al chiosco della Tonina, leggendo quel menù dai nomi assurdi che solo i romagnoli sanno dare. Passate giustamente dalla cronaca alla storia per le deliziose piadine, che nel racconto delle origini del campione rendevano meglio la sua romagnolità (si potrà dire?), la Tonina e la Manola – mamma e sorella del campione – al chiosco facevano anche i panini. C’era per esempio il Tour Malet (scritto così, cosa volete farci) costava ottomila lire e dentro c’erano tonno, pomodori, insalata, olive e cipolla. Stesso prezzo anche per l’Halp’s Douez (sì, scritto così) con salame, mozzarella, rucola e salsa di porcini. Quelli che andavano per la maggiore però erano il Day After (scritto giusto, partorito dopo la doppietta Giro-Tour) con porchetta, melanzane e rucola, e il Pantaslurp, con prosciutto crudo, porcini e melanzane.

Marco Pantani in ritiro a Terracina nel 1998. Martinelli ha raccontato che se Marco mangiava spaghetti e marmellata a colazione era buon segno

Quella volta che Panta era tornato dal Tour, Cesenatico era tutta gialla: ai balconi avevano messo a sventolare tutto quello che avevano trovato del colore del Tour, lenzuola, asciugamani, teli da spiaggia, presine, anche una federa con su scritto bravo in grande e più in piccolo marco. Così, minuscolo, tanto lo sapevano tutti che Panta era grande. 

Quando era arrivato in fondo all’ultima crono, a Le Creusot, in Borgogna, gli ultimi metri li aveva fatti passando con la ruota sulla parola Indurain: qualcuno lo aveva scritto sull’asfalto in stampatello, con la vernice bianca, e in quel momento sembrò che Panta riscrivesse la storia. Aveva un body bellissimo quel giorno: la metà di sopra era una maglia gialla, quella di sotto calzoncini a bande bianche e nere, quelli che a suo tempo portava anche Miguelon. Indurain, che di Tour ne ha vinti cinque ma da quel momento non fu più l’ultimo ad aver vinto Giro e Tour nello stesso anno. Ce lo aveva predetto a Dublino, quando il caso ci aveva messi allo stesso tavolo della sala stampa, «Pantani, lui sì che può farcela».

Marco Pantani con le stampelle dopo l’incidente alla Milano-Torino. Numerosissimi gli stop forzati durante la sua carriera

Panta che aveva tanto coraggio e tanta fantasia da essere caduto in tutti i modi possibili, e in tutte le corse. Panta che aveva passato i mesi a letto senza sapere se avrebbe mai vinto un Giro, o un Tour. Panta che correva e pedalava nell’acqua della piscina con una gamba rotta. Panta che per troppo tempo aveva sentito soltanto silenzio attorno a sé. Però c’era Luciano Pezzi, che con lui aveva avuto tutta la pazienza e la fiducia del mondo. E c’era Beppe Martinelli, che portava sua moglie in vacanza a Cesenatico per non farlo sentire da solo. 

In quegli anni tutti gli dicevano che sarebbe tornato come prima. E poi lui era tornato, ma non come prima: più forte. Aveva incantato Indurain, Merckx, Gaul, Hinault, Gimondi. Li abbiamo visti tutti, a battergli le mani sotto il palco. «Potevo rimanere a Cesenatico sotto l’ombrellone, e invece sono venuto qui», disse toccandosi la maglia gialla sugli Champs-Élysées. E quando tornò a casa quasi si perdeva: dopo tre settimane di fatica non arrivava a cinquantacinque chili.

Marco Pantani al Giro d’Italia 1999 prima della partenza della quinta tappa. Alla fine di quelle tre settimane la batosta di Madonna di Campiglio

Era così, minuscolo e magro, quel giorno che lo aspettammo al chiosco davanti a un Halp’s Douez. Mentre un signore anziano con la pancia lo chiamava Coppi, Marco aveva ordinato una coppa di gelato, che la Manola (che in realtà si chiama Laura, così come papà Paolo all’anagrafe fa Ferdinando) aveva battezzato modestamente Mortirolo: panna, crema, fragola, melone, uva, kiwi, cocco, una roba che faceva ingrassare soltanto a guardarla. Costava diecimila lire, era il pezzo pregiato del chiosco.

Essere uno scricciolo non aveva mai frenato Panta: se chiedevi a Boschetto – dov’era il chiosco – ne trovavi diversi che avevano preso cazzotti da lui già alle elementari. «Era piccolo ma ti saltava addosso subito», raccontavano. Ne sapevano qualcosa i bolognesi, lui e Andrea Agostini si scocciavano presto di sentirsi chiamare «corridori da sabbione» e finiva in rissa. 

Andrea, l’amico di una vita, era con Panta quando hanno fatto la prima vacanza all’estero, in Thailandia, ed era con lui anche il giorno del primo incidente con la bici. E quella volta, avevano quindici anni, che si stavano allenando sulla statale e Marco non vide un Volkswagen parcheggiato e si stampò sul furgone. E la volta dopo, si era appena rimesso in piedi, che caddero tutti in volata: Andrea si svegliò con un pedale in bocca, invece Panta si era rotto clavicola e polso. A scuola dicevano che Panta era «un intelligente vagabondo», in pratica non faceva niente più del minimo indispensabile. 

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Marco Pantani in una foto d’archivio sulla spiaggia che tanto amava. Non si era ancora rasato del tutto. Oggi Pantani avrebbe 53 anni

Allora, ai tempi del Tour trionfale, stava ancora con i suoi nel condominio di via dei Mille, poi si comprò un terreno oltre la ferrovia, senza nessuno attorno, e si fece costruire una villa bifamiliare: a sinistra c’era la casa di Paolo e della Tonina, a destra il pezzo di Panta. Ci vollero cinque anni per finirla, e all’inizio il giardino non c’era, c’era solo un mucchio di terra dove correvano i suoi cani, Ercole e Azzurra, due terranova che gli aveva regalato Jovanotti, che ogni tanto usciva in bici con lui. 

La casa era su tre livelli. Sotto Panta aveva realizzato i suoi sogni di ragazzo: un garage enorme, le bici attaccate sulla parete, una stanza per le coppe, i trofei e le targhe. Un cavalletto da pittore, una taverna per far baracca con gli amici. 

Al piano terra era il pavimento a dividere zona notte e zona giorno: cotto per il giorno, parquet per la notte. In fondo al corridoio c’era la camera da letto di Marco, con i mobili di legno e il leoncino del Tour – l’unico che gli era rimasto, gli altri li aveva regalati a destra e a manca – in bella mostra sul comò. Nel salone un grande divano bianco, il camino, la tv, lo stereo, i cd dei cantautori italiani, una libreria e le finestre sul giardino ancora da crescere. L’ultimo piano invece era riservato al lusso: solarium, idromassaggio, e i libri di ciclismo. E la giornata migliore era quella per cui Panta non aveva mai tempo: dormire non meno di otto ore, uscire in bici «da solo, è il mio momento di riposo», tornare a casa, farsi un bel bagno, e chiamare gli amici. Era così che aveva immaginato la sua vita. Ma la vita non va sempre come l’avevamo immaginata. Oggi è il 14 febbraio, sono 19 anni che Marco Pantani è morto.