Lo splendido reportage di Mario Sconcerti a casa di Carlo Tonon dopo la caduta al Tour de France 1984

Tonon
Carlo Tonon con sua moglie a casa
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È il 1984, verso la fine dell’anno. Carlo Tonon ha 29 anni, una moglie e un figlio. Corridore professionista della Carrera-Inoxpran, gregario di Visentini al Tour de France. Alla fine della tappa La Plagne-Morzine viaggia con un gruppo di corridori staccati. L’approdo vicino. Ma un incidente assurdo lo coinvolge: per colpa d’un cicloturista che si aggrega ai corridori e che si sbraccia per salutare un amico, Tonon cade. Picchia il capo sull’asfalto. Entra in stato di coma e si teme per la sua vita. Poi lentamente si riprende. Lo rimandano a casa. Ed è nella campagna della sua dimora, non lontano da Treviso, che Bicisport lo raggiunge. Questo splendido reportage di Mario Sconcerti è il racconto d’un sottile sentimento di paura e di speranza spartito con lo sventurato campione. Come un bambino, Tonon cercava di imparare tutto di nuovo. In casa allevavano trote e lavoravano duro anche per lui: i medici dicevano che nel giro di un anno sarebbe guarito. Ma in quel momento Carlo ricordava pochissime cose del suo passato. Nel giugno 1996 si sarebbe tolto la vita. Aveva 41 anni. Nelle ore scorse Carmen Tonon ci ha scritto per ricordare il grande giornalista che aveva conosciuto quel giorno e per augurargli un buon riposo. Ieri abbiamo salutato Mario Sconcerti stringendoci alla moglie Rosalba e alla figlia Martina, oggi vi riproponiamo il reportage di quell’incontro.


È difficile non sentirsi intrusi, quasi maldestri nell’angolo di mondo dei Tonon. La loro campagna si allarga nelle campagne degli altri e tutte insieme si perdono tra il mare e le Alpi. Sono uguali e perfette, immobili e piene di dignità. Le lega il silenzio e una nebbia lieve come una grande madre. Sui sentieri di terra battuta che dividono i campi, l’auto scivola come un caravanserraglio interrompendo un’armonia che si ricompone un attimo dopo il suo passaggio.
Mi sento goffo e inopportuno, quasi sperduto. Non ho né scarpe né domande adatte per questo pomeriggio color ruggine di una dolcezza inquietante. Dentro di me sento imbarazzo dovunque, come la belletta che calpesto. Carlo Tonon è nel cortile del casolare. Ha blu-jeans e maglione rosso. Sembra forte, sicuro; padrone del suo tempo e del suo mondo. Mi viene incontro lentamente, si affaccia al finestrino. Faccio la domanda più inutile, “sei Carlo?“. Mi risponde sì continuando a fissarmi.

Carlo Tonon con la sua famiglia, la moglie Carmen e il figlio di un anno, e il loro cane a casa sua

Ha un sorriso amaro, senza sorpresa, lunghissimo, che cancella tutta la sua saldezza apparente. Mi sento di colpo addosso la sua vita interrotta, un cumulo di fragilità che lascia impotenti. Entriamo in casa, in un salottino di luce bianca e opaca. Ci sediamo a un tavolo. Parlo a ritmi vertiginosi di cose scontate. Ha gli occhi grandi e celesti con una luce strana. E come vivessero una vita a parte, soltanto loro. Lui sorride e gli occhi sono immobili e durissimi. Ti guarda cupo e gli occhi s’accendono di invocazioni. Mi rendo lentamente conto che Tonon non sa chi sono o cosa faccio, che utilità possa avere mai nella sua vita l’improbabile chiacchierata che stiamo costruendo, ma si sta già aggrappando a me come minuscolo portatore di vita. Una scintilla inutile e quasi ridicola che interrompe però e a suo modo rilancia il pellegrinaggio dentro se stesso che da quattro mesi Tonon sta compiendo. È questo forse come i suoi occhi: tu parla, parla, non servi a niente, non ti conosco, ma parla che forse qualcuna delle tue parole può improvvisamente legarsi a qualcuna delle mie che ancora vagano nella nebbia.

È questa la grande scoria che gli ha lasciato la sua fuga dalla morte. Carlo non ha più un passato, ma non ha neanche un presente. Gli anni indietro gli tornano a volte e con grande fatica, facendogli male. Il resto è qualcosa che sfugge continuamente. Un minuto cancella l’altro. Vive estraneo a se stesso e agli altri. Nei traumi come i suoi, un uomo su due non si sveglia dal coma. Ed uno su due fra quelli che si svegliano ha danni cerebrali irreparabili.

Carlo Tonon e Roberto Visentini alla Settimana Internazionale Siciliana

Carlo deve il diritto al futuro alla sua forza e alla sua fibra. I medici dicono che nel giro di sei mesi, un anno, tornerà praticamente normale. In questi centoventi giorni che lo separano dalla caduta sulle strade del Tour ha fatto quanto di fisico poteva fare. Adesso è come se ogni giorno partisse dalla sua campagna e andasse a cercare i pezzi di se stesso che sono rimasti sulla strada. La sua vita, il suo patrimonio di uomo, le esperienze, le speranze, tutti i dati “analizzati” in ventinove anni sono esplosi come in un computer andato in frantumi. Ricostruirle sarà difficilissimo, tanti azzeramenti saranno necessari, ma può farcela, forse ci sta già riuscendo. Adesso è un bambino assediato che cerca di costruirsi nuove basi da cui partire. Ogni sera tira le reti e sente che pochissimo gli è rimasto dentro. Allora arriva lo spavento, la paura che niente più accada e che tutto sia soltanto l’inseguimento di tutto. Poi si accorge che anche la coscienza di quel niente, di quella paura, sono un incredibile passo avanti, la sicurezza che la macchina è di nuovo in moto.

Fa fatica a parlare, ingoia le sillabe, è come se qualunque cosa dica riuscisse a tirarla fuori da chi sa quale palude. Ma non ispira pietà. Ti lascia i primi minuti di sgomento durante i quali abituarti a capire che ti capisce, che non devi parlare all’infinito, che è come un linguaggio sconosciuto, ma reale. Poi arriva una sensazione di assuefazione di sempre maggiore agio soprattutto suo. Sente che lo capisci comunque anche quando va alla ricerca di se stesso, dei ricordi più lontani e ne esce confuso e sconfitto. Ma sa che tu sai, è finito l’imbarazzo. Ed è meraviglioso quell’abbozzo di nuova armonia che prende forma, ogni giorno di più, lentissimamente, ma senza sosta.
E’ una favola lunga e a volte straziante. Senza più mestiere, senza più niente che lo distolga da se stesso e il suo problema. 

Carlo Tonon con suo figlio Davide

Carlo Tonon vive senza potersi sfuggire. Non deve fare altro che pensare a se stesso, concentrarsi su di sé, tentarsi, misurarsi, confrontarsi continuamente. E spiare dietro ogni confronto i segni della speranza. 
E’ spesso tremendo. Molte volte non riesce ad afferrare niente, a ricostruire niente. Spesso la sua mente scivola come su una lastra di ghiaccio. Poi pensa che quattro mesi prima era lì sull’asfalto con la testa devastata, senza nemmeno la forza di essere disperato, senza nessuna luce, e si dice che qualcosa di enorme è successo e sta succedendo.
Non ha ancora voglia di essere grato a nessuno, è ancora troppo lontano da quello che era per capire se è stato fortunato. Ma distingue, giudica, si lamenta e sopporta. E’ spesso in balia della vita, ma vive.

Sua moglie mi dice che era contento di partire per il Tour. Sua moglie si chiama Carmen, ha la sua età. E’ piccola e dolce, ha negli occhi una sua quieta disperazione. C’è una sorta di intimità interrotta tra lei e il suo uomo. Dovevano farsi la casa (e dalle loro parti significa farsela davvero con calce e mattoni), dovevano scegliersi la terra. Dovevano fare molte cose che forse non avrebbero mai fatto, ma era bello discuterne.

Tonon con il suocero nell’allevamento di trote della famiglia di Carmen

Adesso lui la segue e l’ascolta in silenzio. «È come un bambino che cerca di reimparare tutto». Non so quanto creda davvero nei medici. Passato lo sgomento iniziale, lo strazio e la paura della prima telefonata, della corsa in Francia al capezzale, poi dei lenti ritorni. Sempre un ospedale più luminoso e più vicino a casa, passata la felicità per il ritorno a casa di Carlo (il 31 agosto, quando Davide, il loro unico figlio compiva un anno), le è scivolata addosso la coscienza di quanto comunque sarà dura. Ed ha reagito come se davvero avesse un altro figlio e nessun marito. Lo segue, lo cura, lo subisce, lo scuote. E lavora. Accanto al cortile dove sei cani splendidamente bastardi si inseguono gelosi, c’è un pullman comunale. Carmen ogni mattina fa la spola fra le campagne ed Ormelle per portare a scuola prima i più piccoli, poi quelli delle elementari, poi i più grandicelli. E il resto del tempo aiuta il padre nell’allevamento di trote. Gli stagni artificiali sono dietro la casa. Vasche comunicanti dove gli avanotti nascono, crescono, assorbono ossigeno, disperdono metano e diventano trote.

Carlo segue il racconto di Carmen, a volte si lascia rapire da uno sguardo fiero. La forza della sua donna sembra rappresentare al suo mondo disperso anche quello che lui era. Dunque era felice quando seppe che doveva partire per il Tour. «Perché è sempre stato un tipo tranquillo – dice Carmen – ma era come se ogni tanto avesse bisogno di partire per sentire poi la voglia di ritornare». Ricordi qualcosa, Carlo? No. Solo le telefonate a casa, solo la faccia di Leali, il suo compagno di stanza. Poi più niente.
A volte cerca se stesso guardando la sua bicicletta. È andato anche alla partenza di qualche corsa nei paraggi. Un modo di svagarsi e violentarsi, ma non è successo niente. «Il giorno dopo non mi ricordavo più nemmeno dove ero andato». La bicicletta è un oggetto estraneo. 

Carlo Tonon con i suoi animali: il corridore sta lentamente recuperando dopo l’incidente

Non ha ancora la forza di rimpiangere o maledire. E in piena battaglia, la sua paura e la sua voglia di sé lo riempiono totalmente. Ha un ronzio quasi continuo nella testa. Come un campanello che copra i suoi pensieri e gli impedisca di metterli nell’ordine di un tempo. Hanno detto che passerà. Una mattina, di colpo, come una febbre. 
E quando sente che la pazienza sta finendo basta che gli raccontino com’era appena centoventi giorni fa. «Se si fosse rotto una gamba sarebbe ancora zoppo», dice sua moglie quasi a se stessa. «Perché meravigliarsi se ha ancora disturbi dopo il colpo che ha preso in testa?». Quando il 31 agosto tornò a casa era ancora quasi completamente paralizzato in tutta la parte destra. Ora si muove appena con qualche impaccio. I progressi sono stati enormi ed evidenti.

E’ l’anima che gli sfugge, i tanti angoli del suo gioco che non riesce ancora a far quadrare. Ha pochissimo equilibrio. Se chiude gli occhi cade. La mattina prima di alzarsi deve prima mettersi seduto sul letto, aspettare che il cervello si abitui alle grandi innovazioni che ogni piccolo spostamento gli causa. Poi ricominciare l’avventura di ogni giorno, la caccia al suo tempo perduto.
Non ha curiosità, né rabbia. Solo un suo quieto rancore, quasi un’ombrosità, una sorta di delusione permanente. Come aspettasse sulla porta della campagna ogni giorno una lettera che non arriva. Fa male ogni volta che il postino se ne va, ma per adesso basta sapere che tornerà domani. Tutti i domani che vuole.