Salvato, Accpi: «Rebellin emarginato dalle squadre. I politici promettono e basta. C’è una mentalità malata»

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Cristian Salvato al corso Neoprofessionisti ACCPI 2019 (foto: Dario Belingheri/BettiniPhoto©2019)
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Cristian Salvato, presidente dell’Associazione Corridori Ciclisti Professionisti, si esprime in seguito alle recenti notizie sulla vita travagliata di Davide Rebellin. Ci parla anche della sentenza, clamorosa, del processo intrapreso dall’Accpi e Marco Cavorso contro l’odiatore dei ciclisti che sui social aveva scritto: “investire un ciclista per educarne cento”.

Cristian, immagino che tu stia seguendo gli sviluppi dell’inchiesta sull’uccisione di Davide.

«Ho letto l’intervista della moglie, non riesco a esprimermi. Davide era una persona bella, un po’ introversa sì, ma viveva per la bici e purtroppo è rimasto in bicicletta fino all’ultimo giorno. La vicenda del doping ha cambiato la sua carriera: ha vinto la causa civile, ma è stato emarginato dall’ambiente generale, dalle squadre».

Ti aveva parlato delle difficoltà di quel periodo?

«Io ho passato tantissime giornate con lui e gli ho sempre creduto, come tutti gli addetti ai lavori e i corridori che lo conoscevano, avevamo e abbiamo un’immagine intatta di Davide. Ai tempi mi diceva di voler combattere fino alla fine pur di spendere tutti i soldi che aveva per difendersi e arrivare alla verità».

Alla fine è stato assolto.

«Sì. Quando c’è da fare la caccia al “mostro” tutti puntano il dito, le brutte notizie fanno sempre più clamore, ci sono tutti i giornali che ne parlano con pagine intere dedicate. Parlare di doping nel ciclismo fa questo, più che in altri sport. Quando ci sono belle notizie, invece, vengono messe chissà dove. Il ciclismo è cambiato radicalmente e il dubbio sulla bontà di questo sport non c’è, poi il fesso che viene trovato fuori regola ci sarà sempre».

La morte di Davide Rebellin ti fa venire dei dubbi sulla giustizia italiana?

«Sono passati 15 giorni e ancora devono fargli l’autopsia, questo è triste. Da quello che è emerso, il camionista che lo ha ucciso non è un uomo, ma una bestia. Ha visto cosa aveva fatto ed è partito come se nulla fosse successo. Speriamo che la giustizia riesca a fare qualcosa, ma lo abbiamo visto ieri quanto funziona qui in Italia».

Marco Cavorso espone lo stesso cartello che aveva pubblicato sui social l’odiatore che è stato assolto dal giudice di Pistoia

Ti riferisci al caso che state portando avanti, voi come associazione e il padre di Tommy Cavorso, contro l’odiatore che sui social aveva scritto: investire un ciclista per educarne cento?

«Per il giudice del Tribunale di Pistoia “non costituisce reato” incitare alla violenza. Ma in che stato viviamo? Dopo la morte di Davide, che è stato un campione, c’è stato clamore, tutti i politici, dal primo ministro in giù, a promettere leggi e cambiamenti. Sono le persone che ci rappresentano, parlano di cambiare le cose e poi non fanno niente. Non si fanno promesse sul sangue delle persone, so già che con il tempo tutto andrà a svanire. Ci sono centinaia di vittime della strada di cui non si parla».

Qual è la direzione che le istituzione devono intraprendere?

«Io sono in Spagna, qua è legge la sicurezza stradale. Parliamo sempre del metro e mezzo che deve mantenere l’automobilista quando sorpassa una persona in bicicletta, molti lo criticano dicendo che non serve a nulla, ma sarebbe l’incipit per iniziare a cambiare la cultura in Italia».

Cosa cambia all’estero?

«Le grandi città europee stanno impedendo la circolazione delle macchine nei centri urbani: tra le tante anche Londra e Parigi. Io sono a Calpe, ho passato 5 squadre World Tour, ci sono le macchine in fila e nessuno suona il clacson, aspettano il momento più sicuro e eseguono il sorpasso sui corridori. Quando costruiscono una nuova strada, accanto creano anche una pista ciclabile. In Italia, invece, i fondi vengono stanziati e poi usati per fare altro. Portare avanti la legge dei 30 Km/h nei centri urbani sarebbe fondamentale, molti dicono che non cambierebbe nulla, ma, secondo le statistiche, c’è un rapporto velocità-omicidi che fa paura».

Dipende molto dalla mentalità che c’è in Italia?

«Bisognerebbe conficcare nella cultura italiana un nuovo modo di pensare: permettere ai bambini di andare a scuola in bicicletta in sicurezza, invece di farsi portare dai genitori che poi lasciano il suv in quarta fila. Sarebbe importante partire dal basso, cambiando la cultura e non aggiungendo sanzioni, l’educazione civica sarebbe fondamentale. Purtroppo c’è un modo di pensare malato in Italia, se devi attraversare la strada sulle strisce pedonali inizi a sperare che qualcuno si fermi e quando succede lo ringrazi, nonostante sia un tuo diritto. Per chi viene dall’estero è scioccante vederlo».

Voi continuerete a lottare?

«Porteremo avanti la lotta contro l’odiatore e cercheremo di portare più sicurezza. Siamo soli, una piccola associazione che rappresenta i ciclisti, uomini e donne, professionisti, ma tutte le istituzioni che sono in grado di far iniziare il cambiamento devono agire e non parlare e basta. Sarebbe bello che tutti si unissero e iniziassero a camminare nella stessa strada di pensiero, ma se chiedi aiuto a qualcuno ricevi in risposta cento ma. Noi andiamo avanti, noi vogliamo giustizia».