Pellizzari all’attacco: «Amo rischiare il tutto per tutto, sogno di vincere Capodarco e il Tour»

Pellizzari
Giulio Pellizzari in una foto d'archivio al GP Liberazione di Roma
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Giulio Pellizzari è diventato famoso quand’era soltanto uno juniores: un caso, prim’ancora di un promettente dilettante. Quando la Bardiani ha annunciato il suo ingaggio e quello di Alessandro Pinarello per andare ad infoltire il progetto giovani che i Reverberi avevano appena lanciato, la Federazione si è messa di traverso: gli juniores non possono passare professionisti, almeno in Italia. Per aggirare il problema, i due ragazzi sono stati costretti a prendere la residenza in Slovenia: non c’era alternativa, dal momento che avevano accettato l’offerta della Bardiani.

«Ne avrei fatto a meno, si capisce – racconta adesso Pellizzari – però non è stata un’esperienza traumatica. A gennaio siamo andati in comune, abbiamo firmato le pratiche necessarie e due giorni dopo avevamo già il tesserino della Federazione. Ma io continuo a vivere in Italia, a Camerino, dove sono nato e cresciuto: è qui che ho il conto corrente e la tessera sanitaria, tanto per essere chiari. In Slovenia abbiamo preso la residenza per un anno, vedremo se rinnovarla o meno».

Giulio, alle polemiche per quella vicenda si sono sommate quelle inerenti al progetto della Bardiani. Qual è la tua idea in merito?

«Vale quello che dissi ad inizio stagione: io e Pinarello saremo i primi juniores a far parte di questo gruppo, ma non gli ultimi. E infatti il prossimo anno arriveranno Paletti, Conforti e Scalco. Sapevo che le critiche sarebbero state tante, ma il progetto mi aveva convinto fin da subito e non ho mai avuto un ripensamento. Nella vita bisogna avere delle convinzioni proprie, altrimenti si dipende sempre dal giudizio altrui».

Il vostro direttore sportivo di riferimento è stato Rossato. Come ti trovi con lui?

«Davvero molto bene, non potrei chiedere di meglio. Sa motivarci, ogni volta che le sue riunioni terminano sono pronto a dare battaglia fino allo sfinimento».

Che bilancio fai della tua prima stagione tra i dilettanti?

«Non è stata malvagia, ma mi aspettavo di più. Mi manca combattere coi più forti, come mi succedeva l’anno scorso tra gli juniores. Ho avuto sfortuna e fino all’inizio dell’estate dovevo studiare per l’esame di maturità. Ho preso il diploma di geometra. Menomale che ho finito, lo studio purtroppo non mi appartiene, inutile girarci intorno».

Hai qualche rimpianto in particolare?

«Il Giro d’Italia è stato traumatico. Non dovevo nemmeno partecipare, avevo avuto dei problemi al ginocchio. L’ho saputo dieci giorni prima, in sostituzione di Martinelli. Ho sofferto dalla prima all’ultima tappa, per portarlo a termine ho dovuto sputare sangue. Si dice che esperienze del genere aiutino a crescere: me lo auguro».

Al Valle d’Aosta, un mese più tardi, hai saputo riscattarti.

«Tutto merito del Giro: se non l’avessi concluso non avrei potuto contare su una forma così brillante. Sono arrivato quinto nella terza tappa e quarto nella classifica degli scalatori, di cui ho vestito anche la maglia di leader. Prestazioni simili danno fiducia, ne ho bisogno».

Tornando indietro prenderesti le stesse decisioni?

«Sì, senza ombra di dubbio. Non so se è giusto o sbagliato, ma il ciclismo ormai ha imboccato questa direzione e non credo si possa tornare indietro. Passare professionisti da giovani è ormai la normalità, ma questo non vuol dire necessariamente bruciarsi: io, ad esempio, corro tra gli Under 23 perché faccio parte del progetto giovani. Si può crescere per gradi anche in squadra più importanti, non è una prerogativa di quelle dilettantistiche».

I talenti stranieri, tuttavia, riescono ad imporsi fin da subito nella nuova categoria in cui arrivano, sia essa il dilettantismo o il professionismo. Perché gli italiani hanno sempre bisogno di qualche anno di adattamento?

«Secondo me è una questione di mentalità. In Italia ci hanno inculcato l’idea che bisogna aspettare, avere pazienza, crescere col contagocce. Io ho l’impressione che siano discorsi parzialmente superati. Non sbagliati in senso assoluto, magari tra dieci anni ci renderemo conto d’aver avuto troppa fretta. E sicuramente nasceranno ancora corridori che maturano col tempo. Ma come si fa a dar torto alle nazioni straniere finché hanno giovani talenti che vincono anche tra i migliori?».

Quali corse sogni di vincere?

«Il Tour de France tra i professionisti e Capodarco tra i dilettanti. Dieci giorni fa ho avuto la fortuna di debuttare nella classica marchigiana e ho avuto i brividi. Per la passione e il pubblico che ho trovato, per me è la gara più bella della stagione. Peccato che sia andata male. Ho forato, ho rotto la bici un paio di volte, sono rimasto senza energie proprio sul più bello. E la sera, mentre ero fuori coi miei amici per digerire la delusione, ho perfino bucato una ruota della macchina. Non era giornata».

A quali corridori ti ispiri?

«A tutti quelli che attaccano, che osano, che provano a trionfare regalando spettacolo, che non si accontentano della vittoria conquistata rimanendo sulle ruote degli altri. Io nel 2021 ho vinto poche gare, soltanto tre: ma in due di queste ho attaccato a 40 chilometri dall’arrivo, nell’altra ai meno 15. Quand’ero più piccolo tifavo Nibali. E dall’impresa del Colle delle Finestre ho un debole per Froome: gli dicevano che era vecchio, bollito, robotico, e invece pensando fuori dagli schemi ha realizzato una vera e propria impresa».

Come ti descriveresti?

«Il piglio è quello dell’attaccante, le caratteristiche e le misure quelle del passista-scalatore: sono alto 1,83 e peso 66 chili. Nella vita di tutti i giorni sono un ragazzo come tanti altri, in bicicletta mi trasformo. Mi vengono le paranoie se una corsa non va come avevo immaginato e mi faccio prendere dalla situazione quando entrano in ballo le emozioni: a Capodarco, ad esempio, ero disperato e mi sono messo a piangere. Ma questo sono io: su certi aspetti devo migliorare, per il resto credo di dovermia accettare così come sono».

C’è un sacrificio che ti pesa in maniera particolare?

«Faccio quello che amo, quindi non posso lamentarmi. I miei amici ed ex compagni di classe, ora che stanno iniziando a lavorare da geometri, me lo dicono spesso: tu sì che ti diverti. Tuttavia, essendo io molto legato alla mia terra, soffro i lunghi periodi lontano da casa. Diciamo che col tempo mi ci sto abituando, anche se in parte mi peserà sempre. Ogni volta che vado via, ad esempio, la sera in camera chiamo sempre i miei amici. Uscire con loro è la mia salvezza nei momenti più tesi e complicati».

Quando hai capito che il ciclismo avrebbe potuto essere qualcosa in più di una passione?

«L’anno scorso, il mio secondo tra gli juniores. Essendo nato a novembre, sono sempre stato in ritardo di qualche mese sui miei coetanei. Ero piccolino, magro, leggero: in pianura volavo via, mi staccavo in continuazione. Poi mi rifacevo in salita. Dalla passata stagione, invece, ho cominciato ad andare forte. E sinceramente non vorrei fermarmi».