Acco: «Zalf scelta azzeccata. Il professionismo? Gli uomini squadra come me non vengono considerati»

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Alessio Acco in una foto d'archivio alla Firenze-Empoli
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Avendo cominciato a pedalare intorno agli undici anni soltanto per passione, Alessio Acco non è mai stato pienamente consapevole del suo talento finché nel 2017, alla sua prima stagione tra gli juniores, non ha vinto il campionato italiano al termine di un’azione notevole cominciata a circa 45 chilometri dal traguardo.

«Un paio di settimane prima – racconta Acco – io e tanti altri ragazzi toscani stavamo pedalando sulla salita di Montecarlo che poi avremmo affrontato anche in gara all’italiano. Era un momento importante, ci si giocava la convocazione nella rappresentativa regionale. Io in un primo momento rimasi attardato, diciamo che imboccai l’ascesa troppo dietro. Quindi mi mossi, recuperando i primi. In diversi mi dissero: ma ti sei reso conto della facilità con cui sei rientrato?».

L’anno dopo, nel 2018, hai fatto tuo l’Arno, una classica internazionale della categoria, piazzandoti in tante altre occasioni. Nel 2019, per il tuo debutto tra gli Under 23, sei volato in Spagna alla Kometa di Basso e Contador.

«Un salto notevole, lo ammetto, ma tutto quello che allora borbottò la gente mi infastidì. Ero quello che aveva preso la decisione sbagliata, che aveva fatto il passo più lungo della gamba. A me sembrava una bella chance e la colsi al volo».

Però i risultati non sono stati all’altezza di quello che si diceva di te. Cosa non ha funzionato?

«Non è andata come speravo, è vero, ma non per i motivi che sostenevano in diversi. L’ambiente della Kometa era valido, indubbiamente, ma purtroppo non era il più adatto alle mie caratteristiche. Ad esempio, ho notato che coi ragazzi della filiera che conoscevano fin dagli juniores erano molto più in confidenza e lavoravano meglio. Con me, invece, ci sarebbe voluto più tempo».

Il calendario era di buon livello, però.

«Sì, ma si correva troppo poco, e io sono un corridore che per entrare in forma ha bisogno di tante gare. Senza dimenticare che nel 2020 ci sono state pandemia e quarantena. Io sarei rimasto volentieri anche in Spagna per qualche mese, alla fine stavo scommettendo sul mio futuro, ma la squadra decise altrimenti. Però non mi sono comportato male: nel 2020, all’inizio della mia seconda stagione tra i dilettanti e con loro, vinsi al debutto nel Memorial Julio Lopez. Vuol dire che non stavo male».

Però quando si finisce più in basso nelle gerarchie non è facile andare avanti come se niente fosse.

«Esatto. Ma non voglio nascondermi nelle scuse e nelle lamentele, sicuramente anche io avrò sbagliato qualcosa e comunque i due anni e mezzo con loro mi hanno permesso di imparare lo spagnolo e di capire molte dinamiche: di gruppo, di corsa, di allenamento. Mi aspettavo di raccogliere di più, ma sarebbe ingiusto parlare di tempo buttato via».

Crono prologo nel velodromo Monti di Padova. Insieme a Verza erano in gara Acco, Cattelan, Faresin, Guzzo, Portello e Rocchetta. (Photo Credits: Photors.it)

E così, dalla metà di giugno dell’anno scorso, sei tornato in Italia, alla Zalf.

«Non avrei potuto prendere una decisione migliore. Ho trovato un ambiente più adatto a me. Un po’ per tradizione e un po’ per politica, la Zalf è una squadra che partecipa a tante gare e a me questo non può che far piacere e tornare comodo. Più che il picco di forma, a noi interessa raggiungere un buon colpo di pedale che possa durare per gran parte della stagione».

Da una squadra così gloriosa ci si aspetterebbe forse un’attività internazionale più intensa.

«Sono d’accordo. Come ho detto, il nostro calendario è denso di appuntamenti e non ci manca il confronto coi professionisti: penso al Memorial Pantani, al Giro di Sicilia, al Giro del Veneto, alla Per Sempre Alfredo. Però, essendo noi una continental, si potrebbe fare ancora di più: magari andando al Nord Europa, dove incontreremmo le realtà giovanili più importanti.

A proposito di Nord Europa, essendo alto 1,82 ti sei spesso contraddistinto come un passista efficace. Quali corse sogni?

«Inevitabilmente le classiche: dalla Sanremo alla Roubaix passando per il Fiandre. Mi piace definirmi un passista veloce: mi muovo bene in volata e riesco a non farmi staccare sugli strappi. Il ritorno alla Zalf è stato positivo: nel 2021, poco dopo essere stato ingaggiato, vinsi in solitaria il Circuito dell’Assunta e quest’anno ho chiuso secondo allo Sportivi Sestesi e al Bottecchia».

Essendo nato nel 2000 sei al quarto anno nella categoria. Che idea ti sei fatto del professionismo?

«Ho la mia, del tutto personale, quindi criticabile. Io sono perfettamente consapevole di non aver raccolto chissà quali risultati, ma allo stesso tempo qualche soddisfazione me la sono tolta e ho accumulato un bagaglio di conoscenze che tanti altri non possono vantare. Il fatto è che oggi le squadre puntano sui giovani, sui giovanissimi. Ma è incredibile che uno juniores con un pizzico di talento abbia la fila fuori dalla porta e corridori più stagionati come me, e magari anche migliori di me, non ricevano un’offerta concreta nemmeno da quelle squadre che si possono considerare secondarie».

Intendi dire che si dà troppo peso alla vittoria?

«Anche, senz’altro. Il tratto che più mi contraddistingue è il realismo. Non sono un vincitore seriale, non posso garantire dieci successi all’anno, ma mi reputo un gregario e un uomo squadra più che valido. So come aiutare i miei compagni a conquistare quelle corse che io non posso centrare in prima persona. Non mi pare poco, a dirla tutta. Ma queste doti vengono apprezzate soltanto quando emergono ai massimi livelli, nelle categorie inferiori non risaltano: e infatti passa professionista chi da giovane vince, anche se poi non è adatto alla massima categoria».

E’ facile immaginare che allora i tuoi corridori di riferimento siano dei gregari di lusso, piuttosto che dei campioni.

«Io ho sempre guardato con attenzione, stima e simpatia a due ex professionisti della mia zona: Eros Capecchi e soprattutto Daniele Bennati. Sono di Castiglion Fiorentino, non distante da Arezzo, e con loro mi sono incrociato spesso e volentieri. Hanno lavorato per dei grandi capitani nelle corse più importanti, spesso aiutandoli a vincere e riuscendo comunque ad avere il proprio spazio. Di questi profili si parla sempre troppo poco, secondo me».

Ti sei dato una scadenza?

«Dal prossimo anno sarò un elite, forse un altro paio di stagioni potrei concedermele. Ma soltanto se ne varrà la pena, ormai ho 22 anni e non voglio più perdere tempo. Tra l’altro, insieme a mio padre, ho un’associazione culturale, la Arezzo Bitcoin. Lui fa il vigile del fuoco, ma ormai questa passione ci sta prendendo sempre di più. Spieghiamo alle persone cosa s’intende quando si parla di bitcoin e blockchain, organizziamo dei corsi formativi. Rimanere nel ciclismo sarebbe bello, ma devono esserci i giusti presupposti. Altrimenti mi metterò a studiare Economia e Commercio e prenderò un’altra strada».