Alcuni addetti ai lavori hanno già pronosticato che la prova in linea dei mondiali africani del 2025 (prima volta nella storia, li ospiterà il Rwanda) la vincerà Biniam Girmay, uno degli astri nascenti del ciclismo mondiale. A settembre dello scorso anno ha conquistato l’argento iridato tra gli Under 23 alle spalle del solo Baroncini, alla fine di gennaio ha centrato il Trofeo Alcudia sbaragliando la concorrenza: peraltro buona, visto che tra i primi dieci sono entrati Nizzolo, Garcia Cortina, Matthews e Ackermann.
C’è tanta suggestione, ovviamente, intorno all’eventualità che Girmay possa vincere non soltanto un campionato del mondo, impresa già di per sé notevole, ma proprio quel campionato del mondo, quello del Rwanda 2025. Diventerebbe il primo africano nero a riuscirci, così come pochi mesi fa a Lovanio è diventato il primo africano nero a salire sul podio mondiale. Quel giorno i suoi tifosi, quelli eritrei, rubarono la scena perfino agli italiani, in estasi per il trionfo di Baroncini.
Biniam, sembra esserci un filo rosso che collega Leuven e Kigali, il Belgio e il Rwanda.
«Non vorrei sembrare scortese, ma secondo me questo filo rosso lo vedete voi. Senz’altro in quella occasione ho scritto una pagina di storia: magari breve, ma sportivamente rilevante. Infatti, ad oggi, la reputo la giornata ciclistica più significativa della mia vita. Ma da qui a dipingermi come il campione del mondo del 2025 ce ne corre».
Una storia troppo bella per essere vera, insomma.
«Attenzione, a me del ciclismo piace soprattutto la ricerca della vittoria, quindi non voglio assolutamente precludermi nessun risultato. Però se devo essere sincero ci penso talmente poco da non sentire nessun tipo di pressione. Mi reputo un realista, non ho mai dimenticato da dove vengo, non voglio perdere contatto con la realtà».
Da dove vieni, Biniam Girmay?
«Da Asmara, la capitale dell’Eritrea. Laggiù il ciclismo è lo sport nazionale, seguito tanto quanto in Europa e forse di più. Mi hanno sempre raccontato che la bicicletta si usava già più di cent’anni fa per la corrispondenza. Un forte impulso l’hanno dato anche gli italiani, visto che l’Eritrea è stata per tanti anni una colonia dell’Italia».
Praticamente hai conosciuto la bicicletta fin da subito.
«Sì, anche se prima ho giocato a calcio. Mio padre e mio fratello sono tifosi del Manchester United, anch’io quando posso guardo le partite. Ho iniziato a pedalare a 13 anni con una mountain bike. Poi, a 15, sono passato alla strada. E’ stato proprio mio padre ad avvicinarmi al ciclismo: ama il calcio, ma stravede per il ciclismo».
Riuscivi ad allenarti e a gareggiare regolarmente?
«Non ho mai avuto molti problemi, in Eritrea e ad Asmara ci sono gare ogni fine settimana. La mia primi bici fu una Trek, mio padre fece più d’un sacrificio per comprarmela. Ma era troppo contento che io volessi fare il corridore. Pedalava anche mio fratello, anche lui ha avuto un ruolo importante».
Quando hai capito di avere un talento non comune?
«In breve tempo ho capito come allenarmi e come gestirmi, come pedalare in gruppo e quando lanciare i miei attacchi. La mia fortuna è stata quella d’essere chiamato dal centro mondiale dell’Uci ad Aigle, in Svizzera. Danno la possibilità di vivere e pedalare in Europa a tutti quei ragazzi talentuosi ai quali mancano strutture e disponibilità».
Hai sofferto il trasferimento in Svizzera? Non avevi nemmeno 18 anni.
«Non è stato facile, ma non l’ho mai vissuto come un dramma. Non mi mancava niente e in più avevo la chance di mettermi in mostra nelle gare più importanti al mondo, prima tra gli juniores e poi tra gli Under 23».
Proprio tra gli juniores battesti Evenepoel, era la prima tappa dell’Aubel-Thimister-Stavelot.
«Me lo ricordo come se fosse oggi. Arrivammo in due, io e lui, e lo battei allo sprint. Sarebbe stato il suo anno d’oro, quando vinse entrambe le prove degli europei e dei mondiali. Una bella soddisfazione, certo, ma forse a queste sliding doors date più peso voi giornalisti di noi».
Poi, finalmente, il professionismo: prima la Delko, dalla metà dello scorso anno il WorldTour con la Intermarché.
«Per ora è stata una bella avventura, è una continua scoperta. La Intermarché è la squadra perfetta per me: affiatata e professionale, ma allo stesso tempo caratterizzata da un’atmosfera serena e familiare. Mi stanno dando molto spazio e di questo li ringrazio. In corsa credo di cavarmela bene anche da solo, ma con una squadra pronta a supportarmi posso fare soltanto meglio».
Cosa significa “meglio” per te?
«Sono un corridore adatto alle classiche: digerisco le salite brevi e sono piuttosto veloce in volata. Quindi non posso non pensare alle gare di un giorno. La mia preferita credo sia la Parigi-Roubaix, alla quale tuttavia quest’anno non dovrei partecipare. Sarò invece alla Milano-Sanremo».
Una corsa perfetta per le tue caratteristiche.
«Direi di sì, infatti non mi pongo limiti, consapevole certamente che si tratta di una corsa imprevedibile e dove si affrontano i migliori corridori al mondo. Sarà fondamentale la presenza della squadra: se starò bene e sapranno tenermi coperto, allora in volata potrei dire la mia».
A quali corridori t’ispiri?
«Quand’ero un ragazzo ammiravo Contador e Cavendish, molto banalmente perché vincevano più di tutti gli altri. Adesso direi Sagan e ancor di più Van Aert: come caratteristiche ci assomigliamo, come palmarès ancora no. Ma sono giovane, compirò 22 anni il 2 aprile, e loro sono dei campioni».
Qual è il tuo rapporto con le corse a tappe?
«Direi buono, anche se non credo che siano le gare più adatte a me. Quelle africane, Giro di Rwanda e Tropicale Amissa Bongo, mi hanno permesso di mettermi in mostra. Una tappa al Tour de France è il mio sogno più grande, ma già quest’anno vorrei vincerne una al Giro d’Italia».
Che rapporto hai con l’Italia?
«Ottimo. Mi piace tutto. Lo scorso anno vivevo a Lucca, da pochi mesi mi sono trasferito a San Marino. Ecco un’altra cosa per cui devo essere grato al ciclismo: se non avessi fatto carriera, diciamo così, molto probabilmente non avrei mai visitato e conosciuto la Toscana, una regione splendida».
Tu hai anche una figlia, Liela, che compirà un anno a marzo. La paternità ti ha cambiato?
«Più che cambiato, credo che mi abbia reso più consapevole e maturo. Mi sento più forte, ho una persona in più per la quale vincermi e impegnarmi. In Eritrea è normale diventare padre o madre a 20 anni, quindi non ho vissuto particolari stravolgimenti. Lei, mia moglie e la mia famiglia vivono sempre laggiù, ad Asmara».
E’ dura vivere così lontano dai propri affetti?
«Sto vivendo un sogno, il mio sogno, e sono consapevole che questo può comportare anche fare delle rinunce. Comunque ci sentiamo ogni giorno, idealmente sono tutti con me. Ogni due mesi torno in Eritrea per un mese. Per il resto, nulla di notevole da segnalare: sogno di vincere il più possibile, sono un ragazzo sereno, tranquillo e determinato, e un uomo che ancor prima che un campione vuole essere un buon padre di famiglia».













