È Matteo Ambrosini la scommessa della Colpack: «Vengo dal pattinaggio e amo le salite»

E' Matteo Ambrosini la scommessa della Colpack
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Per lungo tempo il ciclismo è stato di contorno nella vita di Matteo Ambrosini. C’era, ma non era mai il piatto principale: d’estate era un programma televisivo, che fosse il Giro d’Italia o il Tour de France; negli altri momenti dell’anno un’attività alternativa ma finalizzata a quella che più gli interessava, il pattinaggio. E’ entrato nel giro della nazionale, ha partecipato alla Coppa del Mondo e per cinque volte è stato campione italiano. La sua specialità era la velocità. Qualcuno, scherzando ma non troppo, gli ha detto che si vede: la rapidità con cui è passato dal pattinaggio al ciclismo è notevole.

E tu come rispondi, Matteo?

«Inevitabilmente m’imbarazza. Ma dovrò abituarmi, credo. Me lo dicono come se io, poi, avessi già vinto e dimostrato chissà cosa. E invece ho tutto da imparare».

Da quanti anni pedali?

«La prima bici da corsa l’ho comprata a 16 anni, adesso ne ho 20 (è nato il 23 aprile del 2001, ndr). All’inizio la usavo poco, poi mi sono accorto che più ci pedalavo e più ci prendevo gusto. E confidenza. Non era più quel semplice mezzo che comprai per portarmelo in ritiro o per svolgere il lavoro aerobico».

Riesci a quantificare quel “poco”?

«In questi anni avrò fatto circa ventimila chilometri. Infatti se c’è una cosa che mi manca è il fondo».

Quand’è arrivato il momento in cui il ciclismo è diventato più importante del pattinaggio?

«Il pattinaggio è stata la mia attività principale dai 6 ai 18 anni. Adesso l’ho messo da parte, la stagione passata è stata parecchio complicata e ho preferito così. Già da un paio d’anni, tuttavia, meditavo di partecipare a qualche gara ciclistica. Per curiosità, per misurarmi: in bici mi sentivo a mio agio e dei miei compagni pattinatori ero il migliore».

E così lo scorso anno ti sei cimentato in qualche gara amatoriale col Team Ciclocolor. 

«Esatto. Hanno deciso di tesserarmi, di scommettere su di me, e per questo li ringrazio dell’opportunità. Insomma, col Ciclocolor partecipo ad una decina di gare e ne vinco tre: un circuito, il campionato italiano della cronoscalata e il Giro del Friuli».

Ti aspettavi dei risultati del genere?

«Sinceramente no. Non voglio sembrare un esaltato, sono consapevole che stiamo parlando del mondo amatoriale, però nelle gare che ho vinto il livello era discreto. Alla Ciclocolor me l’hanno detto subito: tu da noi sei soltanto di passaggio, buttati nel dilettantismo perché ci rientri ancora e puoi toglierti delle belle soddisfazioni».

E così è arrivata l’offerta della Colpack.

«Il giorno che vinsi quel circuito, a vedere la gara c’era qualcuno della Ballan. Così mi hanno segnalato a Flavio Miozzo, col quale ho iniziato a chiacchierare. E alla fine eccomi qua, pronto alla mia prima stagione tra i dilettanti. Per la quale, ovviamente, ringrazio la Colpack e il suo presidente, Beppe Colleoni. Spero di ripagare la loro fiducia».

Rimpiangi di non aver sempre fatto il ciclista?

«Assolutamente no, il pattinaggio è sempre stato il mio primo sport, gli ho voluto bene e mi ha insegnato cosa significa fare sport ad alti livelli. Iniziai a praticarlo perché ero nato coi piedi storti verso l’interno, è stato qualcosa in più d’una semplice attività sportiva».

Trovi somiglianze tra pattinaggio e ciclismo?

«Mi viene in mente solo l’esplosività, fondamentale nel pattinaggio e non banale nel ciclismo. Per il resto direi di no: nel pattinaggio una gara può durare anche 35 secondi, la più lunga direi non oltre i 12 minuti. Capisci che su distanze e superfici così differenti i riferimenti saltano».

I primi risultati che hai conquistato hanno sicuramente influenzato, e magari accresciuto, la tua passione per questo sport.

«Sì, può darsi, ma non mi sono appassionato al ciclismo perché ho vinto qualche gara tra gli amatori. Da piccolo, seppur senza costanza, lo seguivo. Da quattro o cinque anni, invece, lo seguo assiduamente». 

Hai dei corridori di riferimento?

«Di riferimento no, che mi piacciono sì: Tadej Pogacar ed Egan Bernal, entrambi grandi uomini da corse a tappe, le mie preferite; ma soprattutto Wout Van Aert, il mio preferito in assoluto perché non si tira mai indietro, va forte su qualsiasi terreno, vince tanto e anche quando non vince è tra i protagonisti».

Con quale stato d’animo ti affacci al dilettantismo?

«Con molta curiosità. Sono ancora a digiuno di tattica, ma so cosa significa allenarsi e far fatica. Tecnicamente non sono a zero, ho già guidato in gruppo e mi difendo egregiamente. Il fondo, come ho detto, mi manca. Voglio proprio vedere fin dove posso arrivare».

Magari nelle corse a tappe, visto che ti piacciono così tanto.

«Di risultati non se ne parla, o perlomeno non ne parlerò di certo io adesso. Prendo quello che viene, soprattutto in termini d’esperienza. Cercherò d’essere prezioso per i miei compagni e magari di mettermi in mostra se ce ne sarà la possibilità. Spero di partecipare a qualche corsa a tappe, quello sì: quale modo migliore per capire chi sono e cosa posso diventare?»