AMARCORD/85 Pantani, un addio struggente e pieno di ombre. A 17 anni di distanza il caso è ancora aperto

Tempo di lettura: 2 minuti

Quattordici febbraio 2004: il giorno in cui Marco Pantani morì per la seconda volta. Di quella data tristissima si è detto e scritto molto: il Residence le Rose di Rimini, i 28 metri quadri della stanza D5, i mobili spostati, le sedie rotte, gli psicofarmaci, la polvere bianca sul comodino. E il corpo riverso del campione, così come lo trovò a tarda sera il portiere di notte.

Si ricordano bene anche le reazioni: chi lo ritenne un perseguitato, chi l’emblema di un ciclismo malato di doping, chi ne ricordò le imprese e chi il declino. E poi la causa della morte: malore, suicidio o altro? L’autopsia parlò di edema cerebrale e polmonare, in seguito a un overdose, e il medico legale Giuseppe Fortuni spiegò il livido sulla fronte e altre escoriazioni come le conseguenze di una caduta per un mancamento improvviso.

I dubbi però rimasero e germinarono piano piano, alimentati anche dalle rivelazioni sulla “prima morte” di Pantani, quella agonistica, decretata nel 1999 a Madonna di Campiglio con la sospensione “a scopo precauzionale”. L’ombra della camorra e delle scommesse illegali, l’ematocrito fuori norma che torna nei limiti poche ore dopo, nel corso di un controllo in un centro specializzato di Imola: venti di congiura, reali o percepiti, nei quali Pantani si è sentito perso, schiacciato, definitivamente sconfitto.

La sua lettera-testamento: «Andate a vedere cos’è un ciclista…»

Ora, a quasi 18 anni dalla morte, il caso è stato riaperto: la Procura di Rimini cercherà di fare luce sulle cause della morte, dopo che nel 2017 la Cassazione aveva escluso definitivamente (così pareva) qualsiasi ipotesi di omicidio. Una verità giudiziaria messa in dubbio da nuove dichiarazioni e nuove ricostruzioni sulle ultime ore di Marco Pantani.

Il quale passò parte dei suoi ultimi giorni a scrivere. Lo aveva sempre fatto, anche ai bei tempi, per fissare sensazioni e stati d’animo. La lettera che scrisse a Cuba due mesi prima di morire va considerata alla stregua di un testamento. Aggrovigliata nello stile, ma capace di riassumere i sogni infranti e le ferite non sopportate. Con due righe talmente intense e struggenti da assurgere a manifesto di una intera categoria: «Ma andate a vedere cos’è un ciclista e quanti uomini vanno in mezzo alla torrida tristezza…»