Corse a tappe e gare internazionali, ecco cosa serve ai nostri talenti. E quanto farebbe comodo una squadra italiana nel WorldTour

Il gruppo al Gran Premio Liberazione 2021 di Roma
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L’affermarsi di giovani fuoriclasse come Remco Evenepoel, Tadej Pogacar e Juan Ayuso (non ancora al livello degli altri due, ma la stoffa sembra simile) ha costretto nuovamente il movimento italiano a porsi uno degli interrogativi più scomodi: perché non riusciamo a far crescere un gruppo di giovani capace di reggere il confronto internazionale e imporsi con regolarità tra i professionisti?

All’Italia non mancano i buoni corridori, di quelli ne ha fin troppi, difatti il livello medio della nostra nazionale è indubbiamente ottimo. Qui stiamo parlando di campioni, quelli che dispongono dei mezzi necessari per primeggiare negli appuntamenti più importanti e di ripetersi nell’arco di più stagioni. Nell’ultimo decennio, le eccezioni si contano sulle dita di una mano: Vincenzo Nibali, il miglior Fabio Aru, il Viviani del biennio alla Deceuninck-Quick Step (e adesso non ci resta che augurare una buona dose di costanza a Ganna e Moscon).

Le altre nazioni

Senza dubbio la globalizzazione ha influito: nessun movimento, oggi, può vantare troppi campioni al vertice. La Slovenia di Pogacar e Roglic non ha né un velocista di spicco né un uomo adatto al pavé, la Francia di Alaphilippe, Gaudu e Démare per il momento non ha nessun corridore in grado di vincere i grandi Giri, la Spagna si aggrappa ancora a Valverde, sognando la vittoria che vale una carriera con Mas, Landa e Bilbao.

L’Olanda ha guadagnato un Van der Poel, ma ha perso un Dumoulin. Perfino il Belgio, di tutti i movimenti quello più florido, non può contare né su un velocista di primo piano capace di primeggiare negli sprint del Tour (Van Aert non lo si può considerare tale) né su un’alternativa ad Evenepoel nelle corse a tappe, l’unica speranza belga in tal senso. Stesso discorso per la Colombia, che si trova già a rimpiangere l’abbondanza di qualche anno fa. L’Inghilterra, invece, poggia quasi interamente su Pidcock e gli Yates (quando si parla di Regno Unito subentra anche Thomas, che è nato a Cardiff, in Galles). Questa frammentazione, insomma, non favorisce l’accumulo di campioni in un singolo paese.

Quel che è certo, tuttavia, è che da diversi anni a questa parte l’Italia fa più fatica che in passato. A livello giovanile, il risicato confronto con la concorrenza internazionale di qualche tempo fa è ancora fresco nella memoria di molti. Vincere aiuta a vincere fino ad un certo punto, a volte staccarsi e stringere i denti insegna molto di più che conquistare il circuito del paese. E poi, da che mondo è mondo, le vittorie si pesano. Chi a vent’anni s’accontenta di accumulare successi su successi in gare di secondo piano, insomma, difficilmente avrà una lunga e brillante carriera tra i professionisti.

Mancano le corse a tappe

Poi c’è la questione delle corse a tappe, che per problemi economici e organizzativi il dilettantismo italiano aveva perso improvvisamente per strada. Dal 2012, la maglia rosa fu Dombrowski, il Giro d’Italia di categoria non s’è tenuto fino al 2017. Da allora, quattro vincitori uno più talentuoso dell’altro: Sivakov, Vlasov, Ardila e Pidcock. Le corse che si articolano su più giorni sono fondamentali per lo sviluppo fisico e mentale di un giovane atleta: il corpo si abitua ad uno sforzo intenso e quotidiano, si prende confidenza con la fatica, s’impara a gestirsi, ad alimentarsi, a riposarsi.

In Italia la mancanza quasi assoluta di corse a tappe s’è fatta sentire, d’altronde Val d’Aosta e Avenir ci sono soltanto una volta all’anno e vi partecipano una manciata di atleti, non ci si può aspettare che da sole risolvano tutto. Sotto l’impulso di Davide Cassani, uno dei più decisi nell’evidenziare questa lacuna, è tornato il Giro d’Italia ed è nato il Giro di Romagna. Si può fare ancora meglio, ma quantomeno è un inizio.

Una volta che quei pochi fortunati e dotati arrivano tra i professionisti, i problemi non sono mica finiti. Prima di tutto mancano formazioni italiane nel World Tour. Considerarle la panacea di tutti i mali sarebbe eccessivo, d’altronde se molti dei nostri non sono i capitani delle rispettive squadre è perché evidentemente non ne sono all’altezza. Ma allo stesso tempo è indubbio che la presenza di team italiani nella massima categoria darebbe più garanzie. Il ciclismo è anche una questione di bandiere, sponsor e interessi, dunque non c’è da scandalizzarsi se gli italiani talvolta si ritrovano a fare i gregari di corridori non sempre più forti di loro. Non è un caso che francesi e belgi abbiano così tante possibilità di mettersi in mostra, anche se questo significa andare in fuga in una corsa di secondo piano: la Francia ha tre formazioni nel World Tour e quattro tra le Professional, mentre il Belgio tre nel World Tour e altrettante tra le Professional.

Le responsabilità delle Professional

Qualche responsabilità, però, ce l’hanno anche le nostre Professional. Che molto si impegnano pur non potendo contare su budget astronomici, questo va loro riconosciuto, ma che tuttavia sembrano adagiarsi su calendari mediocri. Quest’anno, ad esempio, la Bardiani ha corso molto in Croazia e in Grecia. Ha partecipato anche al Circuito del Porto, un appuntamento riservato agli Under 23 e agli Elite, chiudendo al terzo posto con Lonardi dietro a Syritsa e Gomez, due dilettanti.

L’Europa dell’est è una terra molto battuta anche da Androni Giocattoli e Vini Zabù. Quanto contribuisce tutto questo nella maturazione di un atleta? Luca Mozzato, per dire, ha preferito passare alla B&B Hotels, la squadra francese di Coquard e Rolland, una scelta non semplice che tuttavia sembra aver pagato: quest’anno, dopo poco più di un anno tra i professionisti, è arrivato terzo alla Nokere, ottavo alla Roue Tourangelle (vinta da Démare su Bouhanni) e settimo allo Scheldeprijs (prima di Nizzolo e dopo Philipsen, Bennett, Cavendish e Ackermann).

Esemplare il caso di Sonny Colbrelli, un corridore solido e completo che forse ha perso fin troppo tempo tra le Professional, arrivando nel World Tour soltanto nel 2017 a quasi 27 anni. Al primo Fiandre ha chiuso decimo, alla seconda Grande Boucle è arrivato due volte ad un passo dal successo strappatogli da Sagan in entrambe le occasioni. Che corridore sarebbe oggi Colbrelli se avesse seguito un percorso diverso?

La sfortuna dei nostri

I nostri, va detto, non hanno nemmeno molta fortuna: Bagioli si è operato al ginocchio e tornerà in estate, Battistella ha lottato con le placche alla gola buttando via la primavera, Piccolo si porta dietro problemi al fegato non curati a dovere nella passata stagione. Così come non aiuta la scarsa sicurezza stradale: sempre meno ragazzi decidono di praticare ciclismo, ragion per cui il bacino dal quale attingere s’asciuga e scovare un campione diventa sempre più difficile. Ma resta in sospeso una domanda: da cosa si giudica un movimento? Il merito del Belgio, probabilmente, non sta nell’avere Van Aert ed Evenepoel, che come tutti i talenti trovano il modo di affermarsi indipendentemente dai programmi federali, ma nell’avere tante squadre di prima fascia, nel conquistare classiche monumento anche con Stuyven e Van Avermaet (ottimi corridori, non dei fuoriclasse), nel valorizzare chi pratica più discipline, nell’inseguire costantemente una vittoria (anche di secondo piano) con diversi corridori. Da questo punto di vista, purtroppo, l’Italia deve ancora recuperare molto, troppo terreno.