Il mio primo Fiandre, la corsa più bella del mondo: la Pasqua, gli odori, Bartoli e quel fenomeno di Vandenbroucke

La partenza del Fiandre, fino al 2016 dalla piazza centrale della città di Bruges, in una foto d'archivio
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Quando suonava il telefono prima delle dieci del mattino, era segno di emergenza. E quel giorno non fece eccezione. «Hai il volo per Bruxelles nel primo pomeriggio. Organizzati con i bagagli perché non tornerai a casa prima della fine delle classiche, sono più di due settimane». Praticamente avevo il tempo di fare una doccia, riempire una valigia, caricare il computer portatile e chiamare un taxi. Riempire una valigia, sì, ma come? A Roma la primavera era esplosa da almeno dieci giorni, ma lassù? Mica si chiamerebbe inferno se ci fossero il cielo azzurro e venticinque gradi. Buttai dentro alla rinfusa un campionario di quello che trovavo nell’armadio, dalla maglietta sbracciata fino al piumino da neve, come avevo imparato l’anno prima al Giro e al Tour, nel mio primo assaggio da suiveur del ciclismo (dovrei dire suiveuse, ma allora le donne non seguivano le corse, non ancora). Constatato che la valigia non si sarebbe mai chiusa, sacrificai qualcosa alla rinfusa, sapendo che poi me ne sarei pentita. «Comprerò qualcosa in Belgio», mi dissi la solita bugia a fin di bene, sapendo perfettamente che non avrei mai avuto tempo di dedicarmi allo shopping. 

Fiandre e le Classiche: un sogno che si avvera nell’Inferno del Nord

Non avevo neanche mai sognato di andare alle Classiche del Nord, non ne avevo avuto il tempo: seguivo il ciclismo da meno di un anno, e al giornale per il quale lavoravo allora (il Corriere dello Sport-Stadio) ero la spalla del titolare della rubrica ciclismo, Pietro Cabras. Alle classiche sarebbe andato lui, ovviamente, ma quella mattina dalla segreteria mi spiegarono che Pietro aveva avuto un improvviso contrattempo in famiglia, e non sarebbe partito. Dovevo sostituirlo io. La mia mente fu attraversata rapidamente da un pensiero: non ho mai scritto la cronaca di una corsa. Io andavo a parlare con i corridori, raccontavo storie, racconti, retroscena, non chi aveva vinto e chi aveva perso. Ma fu un attimo: c’erano troppe cose di cui preoccuparmi prima, quello che avrei scritto l’avrei capito lassù, all’inferno. E poi c’era un particolare che mi consolava: il giorno dopo era la domenica di Pasqua, i giornali il giorno di Pasqua sono chiusi, così il Giro delle Fiandre 1999 avrei potuto godermelo senza dover scrivere una riga. Come primo assaggio non era male, avrei imparato sul campo. 

Il viaggio e il fenomeno Vandenbroucke

Il volo fu turbolento, un improvviso vuoto d’aria fece sbalzare gli ignobili tramezzini dai vassoi, ma io non avevo mai avuto paura di volare e non cominciai sul Roma-Bruxelles. Stavo immaginando le Fiandre, i muri che avevo visto soltanto alla tivù, i nomi della leggenda, il Koppenberg, il Kwaremont, il Grammont. Ritirata l’auto a noleggio, guidai fino a Bruges sotto una pioggia fitta, un’acqua sottile e trasparente che bagnava più di un temporale. La città era di una bellezza violenta e cupa, con le guglie gotiche che sembravano arrivare al grigio del cielo, i canali arrabbiati dal vento e nei ciottoli del centro storico terra e cielo si erano tramutati in fango. La piazza del mercato era già piena, annunciava quello che avrei visto – esagerato – la mattina dopo alla partenza. Bancarelle di pizzi preziosi come gemme e ammiraglie parcheggiate di traverso sui marciapiedi. In una di queste, stravaccato sul sedile di dietro, c’era Frank Vandenbroucke, che l’anno prima era diventato il primo vallone a vincere la Gand-Wevelgem e quell’anno aveva appena vinto la Het Volk, che si correva almeno in parte sul percorso del Fiandre

Da sinistra: Virenque, Museeuw, Bettini e Vandenbroucke in una foto d’archivio ai tempi della Quick Step Davitamon

Mi infilai di fianco a lui – a quel tempo i direttori sportivi facevano finta di non vederti e non esistevano addetti stampa a vietarti contatti con i corridori – e cominciai ad articolare una domanda nel mio miglior francese, quello che mi aveva insegnato mia zia Lea quando ero una bimba. Ci rimasi un po’ male quando lui mi rispose in un italiano indeciso ma molto comprensibile, non ho mai capito se per farmi vedere che anche lui parlava la mia lingua o perché aveva avuto pietà del mio francese. «Questa corsa l’ho sempre avuta nel cuore. Seguivo le corse in tivù. Il Fiandre, la Parigi-Roubaix, la Liegi. Ma il Fiandre era più bello, forse perché era la prima». Gli chiesi un pronostico, sperando che dicesse Bartoli, così avrei avuto un buon titolo per il giornale. «L’uomo da battere è Van Petegem, sarà lui ad avere sulle spalle la responsabilità della corsa». Niente titolo. Ringraziai e uscii dall’ammiraglia, e andai a cercare un cono di moules e frites inseguendo il puzzo di fritto. 

Questa fu soltanto la prima ora. Le due settimane successive furono una successione interminabile di prime volte. Di colori: violenti, netti, carichi, come se a dipingerli fosse stato un artista in preda alla follia. Di odori: un misto di carne stufata, birre artigianali e patate fritte, che chissà perché si chiamano french frites, lo sanno tutti che le hanno inventate i belgi, servivano quando c’era troppo ghiaccio per pescare, e le patate dovevano somigliare al pesce fritto, in modo da costare di più. Di pietre: che rendono più dura la fatica, e la strada di colpo si inerpica, storta e ripida, e tu la devi domare, passando con le ruote sul pavé senza farti disarcionare. Di vento: sgarbato, cattivo, ovviamente contrario. Di corse: una più bella dell’altra, una più epica e più avvincente della precedente. 

Il giorno dopo, la domenica di Pasqua, il Fiandre non mi sembrò diverso da un rito religioso millenario. Avevo comprato sottobanco una cartina con la quale correre da un muro all’altro anticipando i corridori grazie a scorciatoie indicibili. Ovviamente anche migliaia di belgi avevano la stessa cartina, e ci trovammo un paio di volte impastati in mezzo a un villaggetto da tre-quattrocento abitanti che quel giorno ne ospitava nove-diecimila. Ma a me non importava. Il giornale era chiuso, il pezzo lo avrei scritto il giorno dopo nella mia camera d’albergo, con tutta calma. Non arrivai al traguardo in tempo per vedere vincere Van Petegem. Poi seppi che secondo era arrivato Vandenbroucke, terzo Museeuw, quarto Bartoli. Ma io avevo vinto, avevo appena visto la corsa più bella del mondo. Quei colori, quei rumori, quegli odori non li avrei dimenticati mai più.