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Diffidate sempre quando un giornalista vi dice che ha finito le parole. Non troviamo più aggettivi o superlativi per descrivere Tadej Pogacar? È soltanto perché lui è più bravo di noi. Più bravo a inventarsi ogni giorno qualcosa, sì, anche mettersi a tirare per lo sprint di Molano in una tappa che c’entra poco con lui. Più bravo soprattutto a scrivere – lui sì – la trama di una storia che non abbiamo mai letto prima. Semplicemente perché nessuno ce l’ha mai raccontata. 

Andatevi a rivedere le immagini del finale di ieri, mentre Pogi si fa largo tra le bandiere slovene, la neve ai lati della strada a suggerire uno sfondo ancora più epico, e in quattro o cinque matti – anche uno con la bandana e il teschio da pirata – provano a stargli dietro, a piedi, rischiando di cadere, togliendosi qualcosa a ogni metro per essere più leggeri. Leggeri come lui. 

È la leggerezza la sua forza. Leggerezza quando sale, quando ride alla gente che lo aspetta sulla strada, quando vede un ragazzo vestito di rosa e gli lancia i guantini, quando racconta quello che ha fatto. Non c’è dolore, apparentemente neanche fatica. Inevitabilità, quella sì. Ma soprattutto gusto, inteso alla Valentino Rossi: il gusto di fare al meglio quello per cui sei – evidentemente – nato. «Difficile definire cosa è storia, cosa è leggenda. Ogni Giro ha il suo racconto, in ogni grande giro accade qualcosa che poi finisce sui libri di storia del ciclismo».

Pantani diceva di voler abbreviare la sua agonia, ecco perché spingeva in salita: perché finisse prima possibile. E nella fascinazione che abbiamo avuto tutti per Marco una gran parte dell’incanto risiedeva nella dose di sofferenza che aveva dovuto sopportare e che traspariva dalla sua faccia: ci riconosciamo in chi cade (tante volte) e sa sempre rialzarsi. E quella storia ci piace, perché ci insegna a non mollare, a non arrenderci, ci suggerisce che un giorno tutto questo dolore finirà e da qualche parte ci sarà una maglia gialla ad aspettarci sui Campi Elisi

Pogacar è molto diverso. Quando va forte in salita non sembra affatto spinto dall’esigenza di accorciare un’agonia, al contrario pare non averne mai abbastanza di salite, e di sfide. Lo abbiamo visto in crisi soltanto una volta, al Tour dell’anno scorso, che non aveva avuto il tempo di preparare. Siamo abituati a vederlo sorridere felice quando è in bici, leggero, apparentemente senza sforzo, senza sofferenza. Anche quando è solo sembra felice. Se n’è accorto Tiberi, che ha legato questa leggerezza alla superiorità manifesta. «Sembra me da juniores, quando ero campione toscano, l’anno che sono andato più forte avevo vinto sette gare, anch’io ero sempre sorridente e tranquillo: per forza, vincevo sempre». 

È superiorità, ma è anche gioco. Ed è questo che ci cattura: se di Pantani amavamo che fosse lo specchio della nostra vita adulta, piena di trappole, di difficoltà, di ostacoli da rimuovere, di nemici veri o immaginari, di rivincite, di fatica, di Pogacar ci piace tutto il contrario. 

È un altro pezzo di noi che viene fuori quando lo vediamo correre: quando eravamo bambini e il mondo ci pareva spalancato davanti ai nostri occhi, tutto da scoprire, e i pomeriggi d’estate sembravano non finire mai, pieni di possibilità infinite e meravigliose.