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Pogacar divide. Da una parte quelli che si beano del surplus di spettacolo che la maglia rosa inventa ogni giorno (anche in una tappa come la Novara-Fossano, destinata a farci sonnecchiare per buona parte del pomeriggio, nelle intenzioni di chi l’ha disegnata). Dall’altra quelli, per esempio Paolo Bettini, intervistato da Daniela Cotto su La Stampa, che vedono nell’azione di Pogacar sullo strappo finale di Fossano una mancanza di rispetto: «Azioni così ti rendono antipatico. Già sei forte, già vinci tutto. E se un giorno il gruppo ti trova in difficoltà non ti aiuta e te la fa pagare». 

In realtà lo sloveno fa di tutto per attirarsi le simpatie collettive, è sempre molto sorridente, in gruppo sembra avere molti amici, e ci prova in tutti i modi a non fare la parte del cannibale, quella che il suo talento gli ha inevitabilmente assegnato. E la spiegazione che ha dato della sua azione è impagabile. «Non volevo attaccare, ho soltanto seguito Honoré». Lui non voleva, gli è scappata la gamba. «È stato un po’ come i giochi che facevo con i miei amici da piccoli, quando ci attaccavamo a vicenda in pianura e su piccole pendenze». 

Questo è il punto di sincerità assoluta: la forza di Pogacar è esattamente questa, affrontare il Giro d’Italia come i giochi che si fanno in cortile. Traducendo: lui si diverte, si diverte ancora. Magari non tutti hanno la stessa leggerezza nell’affrontare quello che in troppi ormai considerano un mestiere. Il ciclismo per Pogacar invece è ancora una passione. È questo che unisce il campione più completo al numero uno delle classiche e della multidisciplina, Mathieu van der Poel: il fatto che non hanno perso il gusto di quello che fanno. 

Ed è esattamente questo che piace alla gente, numerosissima in questi primi giorni sulle strade del Giro: assistere a uno spettacolo, lasciarsi sorprendere da uno svolgimento imprevisto, non potersi staccare dalla tappa neanche per pochi chilometri, perché magari capita che il gruppo degli sprinter tiri dritto al traguardo volante e quella diventi una fuga. O che il primo e il secondo della classifica generale anticipino il gruppo negli ultimi chilometri di una frazione «per velocisti».

Nel ciclismo di quest’epoca non ci sono copioni già scritti, non si seguono regole prefissate perché la fantasia è nata per farle saltare le regole. Quando i campioni di un tempo hanno finito gli argomenti, dicono che nel ciclismo di oggi non c’è più rispetto. Quante volte l’abbiamo sentita questa frase. Da spettatori non siamo d’accordo: erano rispettose quelle lunghe tappe sonnolente dei primi dieci giorni del Tour in cui non succedeva mai niente? Bastava guardare gli ultimi tre chilometri per vedere chi era il più forte in volata, tutto il resto non era destinato alla storia, e neanche alla memoria. Che gli dei del ciclismo ci conservino i van der Poel e i Pogacar.