Ghiarè, una vita nel ciclismo: «Fiero di aver valorizzato corridori che avevano bisogno di tempo»

Ghiarè
Francesco Ghiarè, 43 anni, quest'anno aiuterà saltuariamente il Petrucci Parkpre-Team Aries nei panni abituali di direttore sportivo
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Tornare nel gruppo dei dilettanti non dispiacerebbe per niente a Francesco Ghiarè: il problema sono le modalità. Di occuparsi nuovamente di tutto, come ha quasi sempre fatto, non se la sente: non vuole interamente dedicare il suo tempo al ciclismo, perché c’è anche una famiglia da veder crescere, e gli eventi degli ultimi due anni lo hanno spinto a qualche riflessione più profonda.

«Prima l’incidente del 2022, che mi costrinse ad un mese di coma farmacologico, e poi la forma tumorale che mi ha colpito lo scorso anno: sento che non è ancora arrivato il momento di forzare e di comportarsi come se nulla fosse. Figuro tra i direttori sportivi del Team Petrucci, ma il mio ruolo è secondario: gestisco la comunicazione e aiuterò la squadra nelle trasferte toscane. Ho messo volentieri in contatto l’ambiente piemontese con Parkpre, sponsor di cui sono molto amico, ma per adesso non mi avventuro oltre. L’importante è che il ciclismo, per me, sia comunque rimasto una grandissima passione».

Iniziata quanti anni fa?

«Non farmici pensare. Una vita, letteralmente. Ti basti sapere che a duecento metri da casa mia viveva Simone Biasci, che tra i professionisti avrebbe vinto una tappa alla Vuelta. Nelle categorie giovanili era spesso tra i protagonisti. Da bambino, io e lo zio si sceglieva la gara in cui avrebbe corso Simone e si andava a seguirlo. Io sono di Montecatini, quindi fu con piacere che tra gli juniores trovai come direttore sportivo Riccardo Magrini. Ricordo che un anno, aveva già smesso di correre, fece fermare una tappa del Giro all’altezza del bar vicino a casa nostra. Bei ricordi».

Tuttavia, prima di salire in ammiraglia, hai avuto una discreta carriera tra i dilettanti.

«Ho corso fino al 2005. Avevo venticinque anni. Gare vinte: una, a Lamporecchio. Sarebbe impossibile confondersi. Però me la cavavo bene, inanellai una sfilza di secondi posti che faceva impressione. Ho sempre corso nella Fracor, a guidarmi Ezio Mannucci. Avevo due idoli: Chiappucci per il carattere e Cipollini perché mi dicevano che ero un passista veloce. Ricordo che una volta, ancora bambino, alla partenza di una gara non riuscivo ad incastrare il piede nel pedale e lui mi aiutò».

Stavi quasi per passare professionista.

«Nel 2004 volevo smettere. Mi convinsero a continuare promettendomi che nel 2006 un manager italiano di cui non farò il nome mi avrebbe offerto un contratto tra i grandi. Purtroppo per me, quel signore litigò con la mia società e non se ne fece niente. Non sarei stato un campione, ma chi lo sa. Intanto mi sarebbe piaciuto correre un paio d’anni coi professionisti. Però non ho rimpianti esagerati, tutto quello che potevo dare l’ho dato. Ci sono state delle tempistiche infelici, ma non ho potuto farci niente».

Da allora, direttore sportivo e anche team manager.

«All’inizio tornai a Montecatini e lavorai come meccanico nel negozio del mio migliore amico. Dopodiché, dopo un paio d’anni, decisi di rientrare nella Fracor, stavolta salendo in ammiraglia insieme a Mannucci. Il mio maestro è stato lui. Fu Ezio ad instradarmi fin da quando correvo: ero io l’occhio in gruppo, ero io che facevo da tramite coi corridori, ero io che controllavo la situazione in ritiro. La società è rimasta sempre quella, la Fracor: negli anni sono cambiati i nomi legati agli sponsor, ma l’anima è una».

Quant’è cambiato il ruolo?

«Tantissimo. Io credo che prima fosse più semplice: si sapeva meno, si esigeva meno, quello che diceva il direttore sportivo era vangelo. Tra i dilettanti la regola era semplice: fare un po’ meno di quello che facevano i professionisti. Si andava a occhio, ci si basava sull’esperienza. Oggi non bisogna perdere una pedalata: è necessario essere aggiornati sulla preparazione e sull’alimentazione, sull’abbigliamento e sui materiali, sull’Italia e sull’estero. Altrimenti agli occhi dei ragazzi non si è più credibili. Intorno ad una squadra ci sono tante figure che prima non esistevano: un bravo diesse, secondo me, deve mediare e sintetizzare, perché poi è lui a seguire gli allenamenti e le corse».

Cosa ti piace e cosa non ti piace del tuo ruolo?

«Mi piace creare il rapporto coi ragazzi, dover trovare il modo di scardinare le resistenze di ognuno di loro. Sono tutti diversi, le parole che dici a tizio non le devi ripetere a caio. Chi si basa troppo sulla propria esperienza sbaglia, perché un dilettante oggi non ha bisogno di ciò di cui avevo necessità io venticinque anni fa. Non mi piace, invece, dover escludere qualcuno: fosse per me convocherei sempre tutti quelli che s’impegnano, ma non funziona così. Non ho mai detto a nessuno che avrebbe fatto meglio a smettere, ho preferito far capire e intuire i limiti e le prospettive. Parlare chiaro è fondamentale, ma bisogna avere anche un po’ di tatto».

Di cosa vai maggiormente fiero?

«Di aver lasciato un buon ricordo in tanti ragazzi, tant’è che nei momenti difficili ho ricevuto molte telefonate per un saluto, un conforto o un consiglio. E di aver valorizzato corridori sui quali non aveva puntato quasi nessuno. Lascia stare Buitrago, si capiva che aveva classe, e difatti si sta costruendo una bellissima carriera. Penso a Quartucci, che ingaggiai perché senza squadra, oppure a Fiorelli. Atleti che hanno dimostrato di valere il professionismo».

Qualche scommessa persa?

«Non la metterei in questi termini. Secondo me meritavano di più Delle Foglie, che ha dovuto combattere con tendiniti e acciacchi derivate da un problema ai piedi, e Stamegna, che da stagista chiuse al quarto posto subito dietro a Degenkolb la Binche-Chimay-Binche, in Belgio. È un peccato che dal piano superiore non abbiano deciso di scommetterci, il loro spazio in gruppo se lo sarebbero sicuramente ritagliato».

Quindi quest’anno come lo trascorrerai?

«Organizzerò la notturna di Levane dedicata ai dilettanti, ogni anno ci sono tremila persone, veramente una grande serata di ciclismo. E insieme ad una squadra di amatori di mountain bike, la Tuscany Natural Trail Bike, stiamo cercando di allestire una scuola di ciclismo. Ha dato la sua disponibilità anche Francesco Failli, l’ex professionista. È un progetto di cui andiamo fieri. In attesa di schiarirmi definitivamente le idee e di scoprire cosa mi riserverà il futuro, diciamo che il da fare non mi manca».