Garavaglia: «Ormai corro per passione, non ho mai capito perché non sono passato professionista»

Garavaglia
Giacomo Garavaglia vince la seconda tappa del Giro del Veneto 2022 (credit: Photors)
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Nizzolo, Ballerini, Colbrelli, Vendrame, Sbaragli, Ulissi, De Marchi, Bagioli, Garavaglia, Formolo, Nibali. E’ l’ordine d’arrivo del campionato italiano del 2020, quello della pandemia. Garavaglia? Sì, Giacomo Garavaglia, nell’occasione nono classificato. E’, allo stesso tempo, la giornata di cui va più fiero e il motivo principale per cui si morde ancora oggi le mani.

«Ero al secondo anno tra gli elite e correvo in una continental, la Kometa. Fu un risultato inaspettato: dopo 254 chilometri ero gomito a gomito coi migliori professionisti italiani. Ma col senno di poi un errore lo commisi: mi accontentai. Sono sempre stato un corridore abbastanza veloce, se avessi dato davvero tutto probabilmente sarei riuscito a saltare un altro paio di corridori. E in un appuntamento del genere, visto che non ero molto conosciuto, arrivare sesto invece che nono avrebbe potuto significare molto. E’ strano pensare che quel giorno anticipai Nibali, il corridore che ho ammirato di più».

E’ a lui che ti sei ispirato?

«Ispirato no, essendo io un corridore da classiche: veloce e resistente, esplosivo e adatto alle salite da dieci minuti, amante delle corse nervose e piene di rilanci. Nibali era il corridore di punta del ciclismo italiano quando io cominciai a seguire davvero le gare. Ricordo bene la sua vittoria in maglia rosa nella neve delle Tre Cime di Lavaredo, correvo tra gli juniores».

Era il 2013. Due anni più tardi, nel 2015, saresti approdato tra i dilettanti.

«Quanto tempo è passato. A ricordare viene la malinconia. Entrai nella Named e strinsi un buon legame con Matteo Pozzoli, che presi come riferimento. Erano le stagioni della sfida tra Zalf e Trevigiani, si davano battaglia in continuazione. Della Zalf mi ricordo Toffali. Era un bel corridore, se la memoria non m’inganna gli piaceva fischiare mentre pedalava in gruppo. Quando lo vedevamo spuntare nelle prime posizioni del gruppo, la tensione aumentava: era un segnale, da un momento all’altro poteva succedere qualcosa».

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Questa dentro, foto Fruzzetti. Garavaglia tira il gruppo della Firenze-Empoli del 2018 (credit: Fruzzetti)

Letteralmente un altro mondo.

«Puoi dirlo forte. E’ cambiato tutto. Ma la chiave di volta è stata l’alimentazione. Quando arrivai io tra i dilettanti, si affrontavano gare da quattro ore con la fame, mangiando poco prima e alimentandosi con quattro o cinque paninetti durante. Adesso siamo sui centoventi grammi di carboidrati all’ora. A dirlo alcune stagioni fa c’era il rischio di passare per pazzi».

Il Valdarno nel 2017, la Coppa Giulio Burci e il Del Rosso nel 2018, una tappa al Giro del Veneto nel 2022, Castellucchio e Alto Abruzzo quest’anno. Per non parlare dei piazzamenti: hai chiuso tra i primi dieci molte prove del calendario dilettantistico italiano. Hai qualche rimpianto?

«A proposito di piazzamenti, mi piace citarne un altro. Tour de l’Ain del 2020, prima tappa: il giorno della prima vittoria tra i professionisti di Bagioli. Davanti a me lui, Roglic, Bissegger, Dumoulin e Fetter. Io sesto. Dietro di me Guillaume Martin, Almeida, Mollema, poco più dietro anche Bernal, che un anno prima aveva vinto il Tour. Particolari rimpianti non ne ho, comunque. Forse, nel 2019, non sarei dovuto andare alla Colpack: ero al primo anno tra gli elite e loro al primo con la continental, corremmo spesso coi professionisti ma io non ero ancora pronto. Lo capii l’anno successivo, alla Kometa».

E’ mai possibile che nessuno ti abbia cercato per passare professionista? Nel 2020 correvi nella Kometa, allora continental: un anno più tardi sarebbe diventata professional, ma tu passasti alla Work Service.

«Questo è il vero tasto dolente della mia carriera. Sono stato cercato e poi lasciato al vento, ecco qual è la verità. L’anno buono per passare era il 2020, durante la quarantena mi ero allenato nella maniera giusta e i risultati erano sotto gli occhi di tutti. Un primo salto di qualità lo avevo fatto nel 2017, al terzo anno tra i dilettanti, correvo con la Viris di Provini. Nono in una tappa del Giro d’Italia, davanti a me gente forte: Padun, Sivakov, Hamilton, Fabbro, Davies, Hindley, Philipsen, Stannard. Di quei nove, io l’unico a non aver mai corso nemmeno un anno tra i professionisti».

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Bagioli batte Roglic nella prima tappa del Tour de l’Ain 2020. Sullo sfondo, a sinistra, in maglia Kometa, c’è Garavaglia, sesto (credit: Getty)

Perché?

«Io ho la mia teoria. Non ho mai avuto un procuratore, e questo purtroppo conta. Io del ciclismo ho conosciuto il volto bello e quello cattivo. Ho vissuto dei periodi bui e difficili, non è stato facile digerire i rifiuti dopo certe promesse. Ero già vecchio allora, alla seconda stagione tra gli elite. Figurati adesso che ho compiuto ventisette anni il tre di luglio. Ormai il treno è passato, io ero convinto d’averlo preso e invece così non è stato. Il dispiacere mi rimarrà per sempre: sono sempre stato un corridore generoso, almeno una chance l’avrei meritata».

Continuerai a correre?

«Ancora non lo so. Di sicuro non nella Work Service, che comunque ringrazio per la fiducia che mi ha dato nelle ultime tre stagioni. Sto aspettando di capire se firmerò un contratto con una continental straniera. Mi sono laureato in Scienze Motorie, il lavoro che mi piacerebbe fare è il preparatore, questo già lo so. Il problema è che sono un irriducibile agonista e finché avrò gambe, fiato e qualcosa da dire vorrò sempre provarci. Ormai non corro più per cercare un ingaggio tra i professionisti».

E per cosa, allora?

«L’ho detto, per passione e per divertimento. Di fiato ne ho sempre avuto tanto, non a caso per anni ho giocato a calcio ed ero un’ala, l’idolo assoluto era Kakà per leggiadria e rapidità. E agonista lo ero già allora: nessuno mi ha mai insegnato a limare, di vento in faccia ne ho preso parecchio e questo mi è costato più d’una vittoria. Ti racconto questa. La mia prima gara, avevo undici anni, la passai in testa al gruppo dall’inizio alla fine. Non scherzo. Nessuno mi aveva spiegato come si correva, a me in quel modo mi sembrava d’essere il primo. Dalla fatica che feci mi sentii male, mi staccarono tutti. Poi mi spiegarono come ci si doveva muovere, e allora capii. La seconda gara non la vinsi, ma ci andai vicino: secondo. Era l’inizio di una lunga storia».