Damilano alza la voce: «Continental e development ci soffocano, che fine faranno le piccole squadre?»

Damilano
Giuseppe Damilano, 70 anni, è il direttore sportivo della Rostese e uno dei più longevi del dilettantismo italiano
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«Alla Rostese sono arrivato due anni fa per dare una mano coi dilettanti – racconta Giuseppe Damilano ma ho capito in fretta d’aver trovato una realtà come si deve, e quindi non ho esitato a rimanere. Qui ci sono giovanissimi, juniores, mountain bike, pista, ciclocross. Una bella società, 140 tesserati. Il presidente, spesso e volentieri, mi ricorda: Beppe, se i risultati non arrivano non ti preoccupare, prima che l’atleta a me interessa che tu formi l’uomo».

Di storie del genere se ne sentono poche, oggigiorno.

«Non bisogna essere ipocriti, siamo una piccola realtà con un budget risicato, se paragonato a quello delle migliori squadre italiane. Sappiamo di non poter ingaggiare fuoriclasse e vincere dieci corse all’anno, quindi cerchiamo di valorizzare i giovani che abbiamo. Se c’è un piemontese tiriamo a farlo correre, non so se mi spiego. Solitamente non paghiamo i corridori, non ce lo possiamo permettere, ma in compenso diamo loro la possibilità di vivere belle esperienze».

Ad esempio?

«A dicembre porteremo i ragazzi a Diano Marina, a giugno andremo una decina di giorni a Calpe. Quest’anno, limitatamente ai nostri mezzi, siamo andati a correre in Francia e in Spagna, Vuelta a Hispania e Vuelta a Zamora. Tante realtà italiane assai più strutturate di noi non escono dai confini, per dire. Alla Rostese ci sono tranquillità e spazio, è un bell’ambiente per imparare a fare il corridore».

Ma qual è il futuro per realtà piccole come la vostra?

«Se ci sarà un futuro, per noi. Penso anche alla Maltinti, penso alla Mastromarco: una società di brave persone, appassionate e oneste, che non ha mai corso con arroganza e superbia, che ha sempre sfornato begli atleti. Noi, di sponsor, facciamo fatica a trovarne altri. E se ci sono, preferiscono aderire a progetti più ambiziosi. Le continental, tanto per capirci, la cui filosofia io continuo a non condividere».

Rostese
Quale sarà il futuro di squadre più piccole, ma ugualmente fondamentali per la sopravvivenza del movimento, come la Mastromarco, la Maltinti e, appunto, la Rostese? (credit: Rostese)

C’è chi sostiene che voi direttori sportivi e team manager delle storiche piccole squadre ce l’avete con le continental.

«Guarda, sono nel dilettantismo da quarant’anni o forse più, quindi le ho viste tutte. Io non ce l’ho con le continental, in cui peraltro lavorano molti conoscenti e compagni di strada. Io vorrei soltanto che si facesse chiarezza. Perché una squadra che può permettersi d’ingaggiare i migliori juniores italiani e che ha un budget dieci volte superiore a quello della Rostese deve partecipare alle nostre stesse gare? Io credo che la Federazione, da questo punto di vista, debba mettere dei vincoli. Altrimenti è il far west».

Hai qualche proposta concreta?

«Che le continental partecipino alle internazionali e alle corse coi professionisti, come fanno all’estero. Al massimo alle nazionali. Ma non alle regionali, almeno quelle lasciatecele, non soffocateci: altrimenti bisogna accettare l’idea che il ciclismo diventa uno sport d’elite fin dalle categorie giovanili. Ma così la base si assottiglia sempre di più, di corse e di squadre ce ne saranno sempre meno. Se l’aspetto popolare viene meno, il ciclismo incontrerà delle grosse difficoltà».

Da quando hanno preso piede le development, si lamentano anche le continental.

«Il World Tour e l’Uci hanno manie di grandezza, non si spiega. Io faccio questa riflessione: se ogni formazione professionistica, professional comprese, allestisce il suo vivaio, le realtà come la Rostese cosa esistono a fare? Diventiamo i serbatoi di rifornimento delle continental, da cui poi attingono le development. Anzi, è già così. Se ogni vivaio è composto da una decina di corridori, praticamente il professionismo del futuro è già pronto. Peccato che in Italia, in Francia, in Belgio e in altre nazioni ancora ci siano decine di squadre che continuano ad esistere. Ma con quali ambizioni, che senso ha?».

I giovani sono convinti che rimanendo in una squadra dilettantistica tradizionale si bruciano, per questo vanno altrove.

«Una volta me lo disse anche Reverberi: i ragazzi me li prendo direttamente io, altrimenti voi li consumate. Ma non è vero niente, sono luoghi comuni, come se noi improvvisamente non sapessimo più come allenare un corridore. Secondo te, se avessi il paraocchi li porterei in ritiro a Diano Marina e a Calpe, e poi ad affrontare le corse a tappe in Francia e Spagna? Io dico che i corridori li logorano e li ingannano quelle persone che li inseriscono in ambienti esageratamente grandi per la loro età: così i ragazzi s’illudono d’essere già professionisti a vent’anni, forse meno, e il novanta per cento di loro smetterà per mancanza di stimoli oppure tornerà indietro per prendere la rincorsa».

A San Daniele del Friuli, ultima prova del Prestigio Bicisport, tripletta della Jumbo-Visma Development: Ryan vince davanti a Graat (a sinistra) e Van Bekkum (a destra). Com’è possibile, per piccole realtà come la Rostese, pensare di competere contro corazzate del genere? (credit: Photors)

Mai pensato di ingaggiare qualche elite per avere un numero di vittorie pressoché garantito?

«Non è la nostra filosofia. A noi piace lavorare coi giovani, vederli crescere, dare una possibilità a chi non è un predestinato. Noi non lavoriamo coi fenomeni, un po’ perché non possiamo permettercelo e un po’ perché è troppo facile. Diciamocelo, c’è più soddisfazione a valorizzare un corridore onesto, a vincere col campioncino son buoni quasi tutti. A noi piace lavorare senza affrettare i tempi. Purtroppo c’è stato un prima e un dopo Evenepoel, ma è follia: per trovare un potenziale fuoriclasse si mandano al macello decine di corridori normali».

Non c’è il rischio che partecipare a certe corse diventi impossibile?

«Certo che c’è. Pensa alle internazionali d’aprile in Veneto: una volta che l’organizzatore ha invitato le development e le migliori continental, quanto spazio credi che rimanga? E se anche dovessimo partecipare, con quali ambizioni andremmo? Ad esempio, io credo che per la Rostese non abbia senso tornare al Giro d’Italia: è una spesa che non porta molto, serve soltanto a demoralizzare i miei corridori, che credono di essere scarsi pur non essendolo soltanto perché si confrontano con dei semiprofessionisti che si allenano al millesimo già da qualche anno. Voglio proprio vedere quanti ragazzi dei vivai passeranno professionisti nei prossimi cinque anni».

Quindi che stagione dobbiamo aspettarci dalla Rostese?

«Intanto partirei dall’ultima, quella finita poche settimane fa. Per i soldi che abbiamo e per quello che ci possiamo permettere, non è stata una brutta annata. Abbiamo corso abbastanza, abbiamo lottato, ci siamo piazzati. Ci è mancata soltanto la vittoria, che invece era arrivata nel 2022 con Henneberg, il nostro miglior elemento».

Hai qualche rimpianto?

«In Spagna ci hanno ripreso una volta a sessantacinque metri dall’arrivo e una volta a duecento, ma qui fu colpa del corridore che non ci credette abbastanza. Per quanto riguarda i corridori, mi ha deluso Damiano Valerio. Sui problemi fisici che ha avuto non dico niente, lo hanno limitato e nessuno lo mette in dubbio. Ma in più di un’occasione l’ho visto remissivo, tant’è che l’ho sgridato duramente e abbiamo bisticciato. E’ un bene per entrambi che abbia cambiato aria, lo dico anche per lui. Ha un bel motore, nelle corse a tappe può crescere. Va all’Hopplà, da Provini».

Chi ti ha stupito maggiormente, invece?

«Aimonetto. Nella prima parte della stagione lo ha bloccato la mononucleosi, poi si è ripreso e devo dire che l’ho visto davvero bene. Gli ho fatto capire che non voglio perderlo, ho bisogno di un corridore esperto come lui che mi faccia da chioccia ai tanti giovani che abbiamo. Cito, Bounous e Rimmaudo, speriamo di cavarci fuori qualcosa, in passato hanno pedalato bene. Per il resto cosa dire? Ho settant’anni, prima vincevo regolarmente e ora mi accontento del piazzamento. Dico che è giusto così. Continuo a credere nel valore della squadra e del gruppo, e continuo anche a credere nel mio intuito».