Venticinque anni fa il Giro di Pantani. «Vi ho dimostrato che niente è impossibile»

Pantani
Marco Pantani in maglia rosa al Giro d'Italia 1998
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Venticinque anni fa. Il Giro d’Italia l’aveva vinto in Svizzera, su un lago, con un caldo soffocante e cattivo, mentre la sua Cesenatico – quattrocento chilometri più a sud – cominciava a riempirsi di turisti: quelli diurni che si rosolavano al sole, e quelli notturni che facevano il giro dei locali tirando mattina.

Panta quel giorno era partito con la maglia rosa per un’impresa ai limiti del possibile. Quelli che pensano il Giro avevano disegnato una cronometro di 34 chilometri proprio il penultimo giorno, e Marco quali speranze poteva mai avere contro avversari che erano il doppio di lui. A fine Giro Panta era cinquantacinque chili scarsi, con due gambe trasparenti. In salita volava, sembrava che non facesse neanche fatica. La gente gli voleva bene per quello: perché rendeva invisibile la pena, e quando attaccava le montagne dimostrava che tutto si può. Non aveva mai vinto tanto, aveva avuto una vita in salita, si era rotto tutto quello che c’era da rompere, si era fatto investire due volte da una macchina, eppure non si era mai arreso.

La gente lo adorava perché la sua ostinazione a salire era il racconto di quello che ci tocca tutti i giorni, in tutte le nostre vite. Panta era la dimostrazione che tutto si può fare: basta rimanerci attaccati con la testa e con le gambe e con il cuore. Quel giorno, nell’afa insopportabile del lago, lo disse anche lui. «Niente è impossibile, io ho sempre saputo di essere forte, però mi è capitato di tutto. Per tornare alle corse dopo tutto quello che mi è capitato c’è voluta tanta volontà, adesso interpreto lo sport in un altro modo».

Eravamo arrivati fino a Lugano per quella benedetta cronometro, una corsa contro il tempo e contro la logica. La mattina del penultimo giorno Marco sembrava ancora più piccolo del giorno prima, magro magro, con quelle gambe sottili. Partiva per ultimo, con la maglia rosa: se l’era guadagnata attaccando dalla prima all’ultima tappa, li aveva sgretolati tutti piano piano. Ne rimaneva soltanto uno. Pavel Tonkov si era staccato soltanto negli ultimi due chilometri dell’ultima salita: aveva un minuto e ventotto secondi da recuperare, ma quei 34 chilometri a cronometro sembravano perfetti per quell’impresa. Il russo era più forte e più potente di Panta, più adatto alle crono. «Alla fine vincerà lui, però che peccato. È il destino di Pantani, non vince neanche stavolta».

L’altro partì tre minuti prima, con il suo casco da astronauta e la bici da marziano: il primo tratto era in pavè, e lui lo solcò di potenza, deciso a riprendersi il Giro che aveva già vinto due anni prima. Tre minuti dopo uscì in strada lo scalatore venuto dal mare, anellino all’orecchio e testa rapata, «non c’è niente di più aerodinamico della mia testa».

Non ci fu neanche il tempo di avere paura. Al primo rilevamento, mentre ci industriavamo a calcolare quanto avrebbe perso da lì al traguardo, Pantani era già davanti. In ammiraglia Beppe Martinelli aveva cominciato a sciogliere il magone in un fiume di lacrime. Al traguardo, dove lo aspettavamo noi, i suoi gregari avevano cominciato a saltare e ad abbracciarsi e a urlare. Avevano nomi da pirati: il giovane, il vecchio, brontolo, biùtiful, robe così. Gli altri tempi intermedi negli appunti non ci sono neanche. Panta non soltanto respinse l’assalto del russo, andò addirittura più forte di lui, arrivò secondo nella crono. Una roba mai vista.

Dopo non finiva più di parlare. Le sue parole sono ancora fitte fitte sul quaderno di quel Giro, scritte in orizzontale, in verticale, per traverso, anche da destra a sinistra. «Ho fatto i miracoli, non potrei mai rifare una crono così. Ma mi giocavo il Giro, è stata una prova di carattere, molto più grande di tutte le volte in cui ho staccato tutti in salita. Sono partito come se dovessi fare un inseguimento in pista, mi sono anche tolto il frequenzimetro perché non volevo essere sapere i battiti, non volevo essere condizionato. Ho fatto i miracoli».

Aveva la maglia rosa addosso, e non se la sarebbe più tolta. Sarebbe arrivato a Cesenatico vestito così. Parlava, parlava e parlava. «Ho vinto un Giro non adatto alle mie caratteristiche. Penso che avrei potuto vincere molte tappe, a cominciare dall’Argentario. Sono stato bravo, e con un po’ più di fortuna sarei arrivato a questa cronometro più tranquillo. È difficile dire qual è stato il momento più duro, ce ne sono stati tanti. La prima settimana, dopo aver perso troppo nel prologo, e ormai tutti pensavano che corressi soltanto per un piazzamento. La crono di Trieste, quando Zulle mi ha scavalcato in quel modo».

Però Panta aveva avuto la forza e la volontà di attaccare su ogni salita. «A Piancavallo ho fatto la fatica più grande: non stavo bene, non ero tanto fluido, ma i miei compagni erano tutti là davanti, e glielo dovevo. Il giorno più bello? Montecampione: il Giro l’ho vinto lì, perché quando ho visto che Tonkov non si staccava sarebbe stato facile arrendersi. Ma ho avuto una botta d’orgoglio, ho fatto un ultimo tentativo quando mancavano poco più di due chilometri: adesso lo posso dire, nella mia testa quello era l’ultimo tentativo».

Prima dello scatto finale si era tolto tutto, compreso l’orecchino che aveva al naso. Più leggero di così non si poteva. E Tonkov non gli era più stato dietro. «Adesso lasciatemi vincere questo Giro, poi penserò al Tour. Non è facile andare a vincere in Francia. Però non c’è niente di impossibile». Ce lo aveva appena dimostrato. Venticinque anni fa.