Innocenti torna in gruppo dopo quattro anni: «Non ho mai smesso di amare il ciclismo»

Andrea Innocenti in azione in maglia Parkpre Racing Team (foto: Innocenti)
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Lastra a Signa, Memorial Tortoli, Circuito di Cesa, Giro del Friuli, Giro del Valdarno: sono queste le corse da cui è ripartito Andrea Innocenti, ventiduenne di Carmignano, in provincia di Prato, che il 28 maggio del 2018 era risultato positivo ai metaboliti del testosterone durante un ritiro con la nazionale. Era alla prima stagione tra gli Under 23, correva per la Maltinti. Lo squalificarono per quattro anni.

Era considerato il più grande talento del ciclismo italiano. Nel 2017, alla seconda stagione tra gli juniores, conquistò la classifica generale della Valromey, breve corsa a tappe francese, e quella del Giro della Lunigiana, facendo sua anche la seconda tappa. Nell’albo d’oro, il suo nome viene subito dopo quello di Pogacar, vincitore nel 2016, e immediatamente prima di quello di Evenepoel, dominatore dell’edizione del 2018.

«Parlare di redenzione sarebbe scorretto – dice InnocentiIo non ho nessuna colpa, l’ho sempre sostenuto. Tant’è che nel luglio del 2021 il tribunale di Bergamo mi ha assolto, stabilendo una volta per tutte la mia onestà. Ma i miei quattro anni me li sono fatti, la pena non mi è mai stata ridotta».

Andrea, cosa ricordi del giorno in cui ti è stata comunicata la positività?

«Era un periodo delicato, mio padre era tornato da poco a casa dopo un brutto incidente in moto. Era estate. Rientro da un allenamento e lo trovo insieme a mia madre con una faccia da funerale. Io chiesi cos’era successo e loro mi spiegarono tutto quello sapevano».

Qual è stata la tua prima reazione?

«Mi è caduto il mondo addosso. Non sapevo da dove cominciare. Cosa sarebbe successo? Come si dimostra la propria innocenza in situazioni del genere? E poi ero terrorizzato da quello che potevano pensare gli altri».

Quanto tempo hai impiegato ad accettare i pareri altrui?

«Non poco. Pensavo: leggono i titoli dei giornali, si fanno l’idea che sono un dopato e a quel punto il danno è fatto. Come avrei potuto spiegare a tutti la mia situazione? In quale contesto? Con quali forze? Alla fine ho capito: se sono in pace con me stesso, e io lo sono, basta e avanza. Sui pensieri delle altre persone non ho nessun potere, inutile avvelenarsi».

Hai capito a cos’era dovuta quella positività?

«Di sicuro non ad un mio tentativo di alterare le mie prestazioni. Le abbiamo pensate tutte. Avevo acquistato degli integratori, li facemmo analizzare, ma non risultò niente di anomalo. Non saprei, davvero. Non si riusciva nemmeno a capire con esattezza quale le fosse la quantità della sostanza incriminata, talmente era infinitesimale».

Eri a metà del tuo primo anno tra i dilettanti. Hai mai pensato di smettere?

«No, mai. Prima ancora di conoscere l’entità della squalifica mi sono detto: nessuno può impedirmi di continuare a pedalare. Ho proseguito come se nulla fosse, allenandomi con professionalità: scarico, distanza, lavori specifici, dietro-moto. Con un’unica, enorme, differenza: che la domenica non potevo correre».

Sei mai tornato a vedere qualche corsa dal vivo?

«Volontariamente mai, stavo troppo male. Può essere successo per caso: dove vivo, tra Carmignano e Seano, le corse non mancano mai. A volte passavano sotto casa mia. Ma volontariamente non ci sono mai andato. Il momento più difficile arrivava alla fine di febbraio: sapere che a pochi chilometri da casa mia ricominciava la stagione dei dilettanti con la Firenze-Empoli mi portava una nostalgia e una malinconia difficili da spiegare».

Andrea Innocenti è tornato alle corse in questa stagione dopo quattro anni di squalifica (foto: Innocenti)

Chi ti è stato più vicino?

«I miei genitori. I miei procuratori, Maurizio Fondriest e Paolo Alberati, che poi è anche il mio preparatore. Claudio Pratesi. Tiziano Antonini, mio direttore sportivo nelle categorie giovanili. Leonardo Scarselli, storica guida della Maltinti. Ho fatto nomi e cognomi perché non dovevo nominare tante persone: queste sono le uniche ad essermi rimaste davvero vicino, tutte le altre se non sono scomparse si sono quantomeno allontanate».

E’ stato questo atteggiamento a ferirti di più?

«Sì. In Toscana quelli come me li chiamano “bonaccioni”: non sono scafato, non ho malizia. E in tanti si sono approfittati di me, di quella poca notorietà che avevo guadagnato qualche anno fa. Come se non bastasse, io sono uno timido e riservato: è raro che mi apra. Quindi, alla resa dei conti, sono rimasto male il doppio».

E’ vero che ogni sera, prima di andare a letto, leggi un versetto del Vangelo?

«Prima della cresima mi confessai con un prete: la domenica corro e non vado quasi mai a messa, gli dissi. Al che lui mi rispose: promettimi che allora, ogni sera prima di andare a letto, leggerai un versetto del Vangelo. Quando prometto, mantengo. E non mi sono mai dimenticato di quel prete, anche se sono passati dieci anni. E negli ultimi quattro si è rivelata una buona abitudine oltre ogni più rosea aspettativa».

Com’è nata la possibilità di tornare a correre con la Parkpre diretta da Francesco Ghiarè?

«Con Fondriest e Alberati abbiamo capito in fretta che si trattava della scelta migliore. Non conoscevo Francesco, se non di nome, ma ho trovato una persona brava, disponibile e competente. Il rientro è andato bene, non me l’aspettavo: al Giro del Friuli sono arrivato decimo in classifica generale, mica male».

Francesco Ghiarè, direttore sportivo della Parkpre Racing Team, al Liberazione

Pedalare in gruppo è stato complicato?

«Qualche meccanismo arrugginito, ma niente di drammatico. Questione di tempo, di confidenza. Però non mi accontento. Se riuscissi a vincere una corsa sarebbe magnifico, qualche podio andrebbe ugualmente bene. Mi piacerebbe finire bene questa stagione per ripartire ancora meglio nel 2023».

Adesso il tuo obiettivo qual è?

«Quello di ogni giovane corridore: provare a diventare professionista. Fin da bambino, il mio sogno è partecipare ad almeno uno dei tre grandi Giri. Tra l’altro, essendo un passista-scalatore, troverei anche il terreno più adatto alle mie caratteristiche. In passato ho ammirato Froome: per com’è cresciuto nel tempo, per le critiche che ha prima sopportato e poi superato, per il modo in cui ha saputo vincere in discesa e a cronometro quando non poteva fare la differenza in salita».

Essere considerato un grande talento ti pesava?

«No. Anzi, pur essendo riservato e non amando ricevere le attenzioni altrui, mi faceva piacere essere considerato forte e temuto. Che sarei potuto diventare qualcuno lo capii prima tra gli allievi e poi definitivamente tra gli juniores. Il sabato e il lunedì, il giorno prima e il giorno dopo la gara, non uscivo mai in bicicletta. Poi realizzai che, avendo del potenziale, dovevo iniziare a sfruttarlo nella giusta maniera. E così, senza esagerare, cominciai ad uscire per una girata. Era una piccolezza, ma l’idea di comportarmi da ciclista maturo, da professionista, mi riempiva di soddisfazione».

La sera prima di rientrare in gruppo a Lastra a Signa hai dormito?

«Mi sono tornati in mente gli inizi. La prima bicicletta: piccola e gialla, mi brillavano gli occhi, finalmente avevo uno di quei mezzi così strani e così curiosi che vedevo in casa del nonno. La prima gara in assoluto: caddi alla prima curva. La prima vittoria: dovevo avere una decina d’anni, tra stomaco e pancia avvertii una sensazione nuova, inaspettata, bella. Comunque mi avevi chiesto se la sera prima di rientrare a Signa ho dormito. Certo, regolare. Me lo hanno chiesto tutti: sei agitato?».

E tu cos’hai risposto?

«La stessa cosa a chiunque me lo chiedesse: si può essere agitati quando si torna a casa?».