AMARCORD/99 Giro d’Italia 1984, finalmente Moser! La sofferenza in montagna, l’apoteosi di Verona e una coda di veleni

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Fu un lungo testa a testa, dalla prima pedalata all’ultima: il vecchio, redivivo Moser, contro il giovane, brillantissimo Fignon, che l’anno prima aveva già gustato il trionfo al Tour. In palio, il Giro d’Italia edizione 1984. Per il trentino era l’undicesima caccia, il francese ne aveva avuto un assaggio due anni prima, partecipando come gregario alla vittoria di Hinault.

Sfuggendo allo spettro di un tramonto precoce, Francesco Moser aveva fatto un salto nel futuro preparando e centrando il record dell’Ora a Città del Messico nell’inverno precedente. Sollecitato dallo staff Enervit, aveva innestato sulla sua antica tempra nuovi sistemi di allenamento e di alimentazione, sublimando il tutto con il generoso apporto della tecnologia. Al debutto della stagione su strada, aveva sbriciolato il tabù-Sanremo, gestendosi in seguito in modo di prolungare lo stato di grazia fino al Giro.

Sorpresa al Blockhaus: Moser attacca

La maglia rosa arrivò subito, al termine del prologo a cronometro di Lucca. Ma Fignon gliela sfilò il giorno dopo, vincendo la cronosquadre. Il primo snodo decisivo fu la tappa del Blockhaus, nella quale inaspettatamente Moser giocò la parte dell’attaccante, staccando Fignon e riconquistando la leadership, anche ai danni di Visentini e Argentin, gli unici apparsi in grado di intromettersi nella sfida al vertice.

Arrivarono le grandi vette, ma non tutte: dalla Lecco-Merano sparì nientemeno che lo Stelvio, a causa del maltempo. Un guaio per Fignon, che in classifica doveva recuperare due minuti. Il suo direttore sportivo, Guimard, non la prese bene: «D’accordo, lo Stelvio non si poteva fare, ma perché al suo posto non è stata inserita un’altra salita?». Di lì a prefigurare favori degli organizzatori all’idolo di casa il passo fu breve.

La ex tappa dello Stelvio non fece male a Moser, e Fignon commentò ironico: «E queste sarebbero le tappe di montagna?». Ma nei giorni successivi il francese si scatenò: prima dimezzò il ritardo, sull’ascesa di Selva di Val Gardena, poi diede vita all’attacco decisivo, nel tappone dei cinque colli: partì sul Pordoi, insieme all’olandese Van der Velde e proseguì sul Sella e sul Gardena, affrontando da solo il Passo di Campolongo, ultima asperità. Alle sue spalle, Moser soffriva, ma assecondava con saggezza i suoi limiti, evitando di scoppiare definitivamente. Perdeva secondi in salita, ne riguadagnava in discesa e alla fine ne uscì con un ritardo in classifica di un minuto e mezzo.

Dopo la crono, la rabbia di Fignon: «Giro senza salite»

Lo “Sceriffo” aveva a disposizione un solo colpo: la cronometro finale, un suggestivo volo di 42 chilometri fino all’interno dell’arena di Verona. Ma l’impresa sembrava inverosimile a tutti, perfino a un uomo navigato come Felice Gimondi, che dalle colonne del Corriere della Sera espresse tutte le sue perplessità: «Seguendo un filo logico, non ci si può nascondere che il Giro è saldamente nelle mani di Fignon».

Si sa come andò: Moser, supportato dalle nuove ruote lenticolari, sperimentate con successo durante il record dell’Ora, andò come un treno, pedalando a 51 all’ora. Fignon si batté con tutto quello che aveva in corpo, ma prese quasi due minuti e mezzo, perdendo la maglia per un minuto. «Ricordatevi – ringhiò alla fine – Non ho perso il Giro al Blockhaus o nelle cronometro. L’ho perso perché era una corsa senza montagne». E poi: «Vedendolo con quella bici mi aspettavo una grande prova di Moser. Ma è tempo di correre a ripari, di mettersi sul suo stesso piano».

L’Arena quel giorno fu uno spettacolo di folla, nel quale Moser ricevette una sorta di Oscar alla carriera. All’undicesimo tentativo aveva coronato la sua caccia al Giro, forse l’ultimo traguardo che gli mancava.