Tutti i sacrifici di Giosuè Epis: «Per inseguire il professionismo ho perso fidanzata e amici»

Epis
Giosuè Epis della Iseo Rime Carnovali
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Giosuè Epis ha un sogno: diventare un ciclista professionista. Lo stesso di tutti i suoi colleghi, giacché nessun ventenne per quanto appassionato pedala soltanto per il piacere di farlo. Giosuè Epis cova questo sogno da anni. Da piccolo giocava anche a calcio ed è rimasto un grande appassionato di sport, tutt’oggi sostiene che niente lo emoziona più di un duello tra Verstappen e Hamilton o di una staccata di Marquez

Ad un certo punto, tuttavia, Epis ha incontrato il primo bivio della sua vita: calcio e ciclismo non potevano più convivere, bisognava sceglierne uno.

E tu, Giosuè, hai scelto il ciclismo. Perché?

«Per due motivi: intanto perché è una passione di famiglia, in casa si parla di ciclismo fin da quando io ho memoria. Mia sorella Silvia, ad esempio, da pochi mesi è entrata a far parte della Federazione Ciclistica Italiana come direttore tecnico del settore nazionale giovanile». 

E l’altro motivo qual è?

«I valori che il ciclismo sa trasmettere soprattutto ad un giovane come me. Anche chi non riesce a raggiungere il professionismo può definirsi fortunato: il ciclismo gli ha comunque insegnato cosa significano impegno e pazienza, professionalità e resistenza. S’impara a familiarizzare coi sacrifici».

Qual è quello che sopporti con maggior difficoltà?

«Per inseguire il mio sogno ho rinunciato a fidanzata e amici. Non è stato facile, sono scelte importanti e indietro non si torna. Adesso esco con due o tre persone, quelle fidate, quelle che ho selezionato, che comprendono la vita che faccio».

Non è stato un passo esagerato per un giovane della tua età?

«Non è stato facile, l’ho già detto, a maggior ragione per un ragazzo chiuso come me. Ho provato a fare un anno con tutti questi impegni, ma quando l’ho concluso ho capito che non potevo andare avanti così. Il ciclismo è uno sport duro e richiede un certo tipo di disciplina. Magari quando sarò più grande imparerò a gestire anche situazioni del genere».

Tutta questa motivazione non è casuale: vuol dire che sei pienamente consapevole dei mezzi di cui disponi.

«Nelle categorie giovanili vincevo spesso e volentieri, quando perdevo mi piazzavo. La consapevolezza è arrivata col tempo, non c’è stato un risultato che mi ha fatto dire: sono bravo. A forza di far bene ho iniziato a pensare che il ciclismo potesse diventare il mio lavoro, ho cominciato a credere che si potesse fare qualcosa di buono».

Il tuo primo anno tra gli Under 23 con la Iseo Rime Carnovali Sias sembra aver confermato tutto questo: una vittoria alla Fiera di Sommacampagna e costantemente tra i primi dieci dall’inizio di settembre fino alla fine della stagione.

«E’ andata bene, abbiamo raggiunto e superato gli obiettivi che ci eravamo prefissati. Intendiamoci, so di essere bravo, però qualche dubbio credo sia lecito averlo. A spaventarmi maggiormente era il rapporto coi compagni di squadra: alcuni hanno quattro o cinque anni più di me, a quest’età sono tanti, quando devi essere accettato da un nuovo gruppo è sempre una questione delicata».

E invece non ci sono stati particolari problemi.

«Fortunatamente no e per questo devo ringraziare i ragazzi della squadra e anche i due direttori sportivi, Mario Chiesa e Daniele Calosso. In particolar modo con Mario vado molto d’accordo. Ci siamo conosciuti quando ero al secondo anno tra gli juniores, se devo essere sincero la sua storia non la conoscevo. Poi l’ho studiata e ho capito con chi avevo a che fare».

Un gregario fidato che ha disputato grandi giri e classiche monumento, un direttore sportivo salito nelle ammiraglie di Asics, Fassa Bortolo, Liquigas e tante altre ancora.

«Senza dubbio, ma a colpirmi più che la carriera è stato il carattere. E’ esigente e comprensivo allo stesso tempo. Con lui non parliamo soltanto di ciclismo, ma anche di quotidianità e vita privata. E’ una delle poche persone che negli ultimi anni mi è rimasta sempre vicino. E poi siamo entrambi bresciani. Ogni tanto penso alla soddisfazione che gli regalerei vincendo il Città di Brescia».

E’ una delle tue corse dei sogni?

«Sì, anche se so benissimo che non vale come altre. Però ci sono legato, ha un valore affettivo importante. E’ dove ho conosciuto la mia prima fidanzata. Nessuna vendetta, ma vincerla vorrebbe dire chiudere un cerchio. E lasciarsi definitivamente alle spalle il passato».

A quali altre gare ambisci?

«Tra gli Under 23 dico la San Geo, il Liberazione e una tappa al Giro d’Italia. Tra i professionisti la Milano-Sanremo e la Parigi-Roubaix. Corse lunghe, dure, imprevedibili: chi le conquista, secondo me, oltre che un bel corridore è anche un grande uomo, altrimenti tutta quella sofferenza non la sopporterebbe».

Forse delle due la più adatta ad un corridore veloce come te è la Sanremo.

«Senza dubbio. Io mi reputo un velocista atipico, non da volate di gruppo. Gli sprint in cui si toccano i 70 chilometri orari mi rimangono ancora indigesti, ma in quelli da 60 orari sono praticamente imbattibile».

Giosuè Epis: qual è allora il tuo modello di velocista?

«Sinceramente non ne ho mai avuto uno. Quando ho cominciato a seguire il ciclismo c’era Cavendish che vinceva in continuazione, però faccio fatica ad indicarlo come il mio corridore preferito. Non ne ho uno, ecco. Però ammiro molto Evenepoel: quello che fa, e che ha già fatto, nonostante abbia soltanto due anni in più di me è veramente incredibile».

Un caso di precocità che non va preso come riferimento, però.

«Sono d’accordo, infatti io sono ben felice di poter continuare a crescere nella Iseo senza forzare troppo la mano. Non vorrei che fosse passato il concetto che nella vita di Giosuè Epis c’è soltanto il ciclismo, che poi non c’è nient’altro. Ho diverse passioni: orologi, auto d’epoca, auto sportive. E al pomeriggio, dopo aver trascorso la mattina ad allenarmi, studio».

Cosa?

«In futuro non mi dispiacerebbe diventare un manager sportivo. Io sono un grande appassionato di sport, riesco ad immedesimarmi bene negli atleti che vedo in televisione perché anche io, nel mio piccolo, faccio la stessa vita. So cosa significano le gioie e le difficoltà, i sacrifici e le ricompense».

Quindi ti piacerebbe allestire una tua realtà.

«Sarebbe bello. Buttare giù un progetto, realizzarlo, vederlo crescere. Ogni volta che vedo una squadra o una scuderia vincere una coppa o un mondiale penso: chissà che soddisfazione starà provando chi ha tirato su la baracca…»