Lello Ferrara, l’influencer del ciclismo: «La bici mi ha salvato dalla camorra, ora sono amico di Nibali e Colbrelli. Pogacar? Quando mi vede, scoppia a ridere»

Lello Ferrara, ex pro' e camionista, diventato popolare con le sue dirette su Instagram
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Il ciclismo dà, il ciclismo toglie. Un po’ come la vita, che molto spesso viene paragonata a una gara in bicicletta. Lello Ferrara nonostante le difficoltà e i mostri affrontati lungo le salite e le strade in giro per il mondo, è partito dalla sua Napoli e negli anni anni ha fatto della resilienza la sua cifra stilistica. Una storia costellata di insidie: da atleta, da marito e da padre e da quella prima caduta in una corsa organizzata contro la Camorra, che ha segnato l’inizio di un nuovo percorso. Raffaele, detto “Lello“, nell’ultimo anno è diventato popolare con le sue dirette Instagram che hanno permesso al pubblico del grande ciclismo di conoscere i campioni da un punto di vista ravvicinato e più umano. Oggi Lello Ferrara si racconta su quibicisport e traccia il bilancio anche della stagione appena conclusa.

Lello Ferrara, influencer del ciclismo: quando ha iniziato?

«L’influencer del ciclismo, lo dicono gli altri. Perché io resto sempre Lello, ex corridore ed ex camionista. Ho iniziato con le dirette a marzo, durante il primo lockdown: se qualcuno pensa che ci sia dietro uno studio, parlando di algoritmi di Instagram, si sbaglia. Ho iniziato a marzo con la prima diretta e ne avrò all’attivo più di cinquecento. Preciso che le dirette sono state seguite, non per merito mio, ma perché ho avuto la fortuna di aver fatto il professionista e di aver seminato amicizia e simpatia. Il merito è dei manager, dei direttori sportivi e dei corridori che hanno partecipato a queste dirette, mi preme sottolinearlo. Da corridore mi sono sempre chiesto, ma perché mi fanno sempre le stesse domande? Sono stato me stesso e forse è stata questa la mia fortuna».

Lello Ferrara chi è nella vita di tutti i giorni?

«Lello Ferrara è un papà, un ex corridore che fa questo. Sono un folle di mio, ma sono la persona più semplice che esista. Non ho figli che corrono in bicicletta, ma ho sposato la causa del ciclismo perché il ciclismo mi ha salvato. Sono rimasto lo stesso ragazzo che ha lasciato Napoli all’età di 17 anni, sono me stesso: non c’è nessun trucco e nelle dirette, negli eventi ai quali sono invitato non recito alcun copione».

Come inizia la sua storia con il mondo della bici?

«Arrivo da San Pietro a Patierno, un quartiere dell’area nordorientale di Napoli. Un quartiere forte tra Scampia e Secondigliano dove purtroppo la delinquenza e la malavita la facevano da padrone nei miei anni. Oggi le cose stanno cambiando, perché c’è la comunicazione e il modo di poter gridare al mondo quello che si vive. L’avventura in bici è partita per scherzo: avevano organizzato una gara contro la Camorra nel mio quartiere: non ero mai salito in bicicletta, arrivavo dal mondo del calcio perché mio padre giocava a calcio. Ho fatto questa gara, partendo con le Superga e i pedali Look. Caddi facendo un volo incredibile. Avevo poi intrapreso la strada della criminalità, ma ho trovato davanti a me la “bestia nera” di mio papà che insieme ai miei zii ha spinto affinché iniziassi ad andare in bici. E da lì è partita la mia carriera».

Il video della prima gara di Lello Ferrara a San Pietro a Patierno, con la caduta

E cosa rappresenta oggi?

«Penso che devo tutto al ciclismo e a mio padre. Ne ho passate tante in vita mia e il ciclismo è stata la mia palestra di allenamento e il mio vero educatore. Penso che almeno una volta, in bicicletta dovrebbero salirci tutti. Non per andare a prendere il pane, ma per affrontare una salita e per rendersi conto di quanto ti formi davanti alle difficoltà. È stato questo a portarmi ad avere successo: ho voluto far passare il messaggio che i corridori sono degli esseri umani».

Momenti difficili?

«Quando ho affrontato l’Angliru alla Vuelta del 2002: lì ho capito cosa volesse dire essere in difficoltà. E poi quando mi hanno fermato nel 2004 per un’anomalia cardiaca: rimasi senza squadra ed è stato il punto più basso che ho attraversato. Invece nella vita, quando ho perso la quotidianità con i miei figli, per via della separazione».

Amicizie?

«Ho un bellissimo rapporto con tutti e in particolare con Vincenzo Nibali: “Il Campione e il Bandito” come scrivo spesso su Instagram. Con le dirette si è diffusa la voce e recentemente la persona a cui mi sono avvicinato di più è Tadej Pogacar: la cosa bella è che lui non parla italiano e io non parlo inglese, ma quando ci vediamo stiamo insieme e ridiamo sempre. C’è simpatia tra noi due. Quando parli la stessa lingua, che è quella del ciclismo, l’intesa c’è sempre: potrà cambiare, con cardio, watt e freni a disco, ma il concetto del ciclismo tra i corridori rimane lo stesso».

Qualche aneddoto?

«Ho un ricordo stupendo di Franco Ballerini, avevamo un bellissimo rapporto. Mi convocò per i mondiali del 2006 e scherzando gli dissi: “Se vuoi glielo dico io a Bettini che deve fare la riserva”. Stavo facendo una distanza e squilla il telefono. «Pronto Lello, sono Franco Ballerini!». Ero in giro da sei ore, per cui risposi di non prendermi in giro. Misi giù e continuai. Dopo un po’ verso Asiago tornò il segnale e trovai una chiamata di Boifava. Cosa avrò combinato? Mi fermai e lo chiamai. «Cosa hai combinato? Hai chiuso il telefono in faccia a Ballerini! Vuole portarti in nazionale, richiamalo». Lo richiamai e lui rideva. Ci sentivamo spesso e si affezionò a me: mi chiedeva come stavo, una persona speciale. Con Franco ho fatto tutto il volo andata e ritorno a Pechino, mi considerava come il fratello minore da seguire. Quando arrivammo a Pechino, io, Sabatini, Baldato, Gasparotto e Nibali eravamo su un grattacielo, lui mi diceva di non far casino e davanti alla porta di ogni ascensore c’erano i militari. Li salutavo “Ciao, ciao”, ma nessuno mi rispondeva. E allora feci una scommessa con Franco: una cena se un militare mi avesse risposto. Alla fine, l’ultimo giorno prima di lasciare l’albergo, il cinese ha sorriso e Franco mi disse “Non so come hai fatto e ti pago la cena a un ristorante italiano».

Quanto sono importanti i Social per far crescere la platea del nostro sport?

«Domanda difficilissima. Oggi con i Social si dà la parola a tutti. Ci tengo a sottolineare una cosa: non vorrei essere e non mi sento un giornalista, è una mancanza di rispetto verso chi ha studiato e ha lavorato veramente. È un messaggio forte perché tutti devono capire che a Lello è andata bene, ma di Lello nel ciclismo ce n’è uno solo. Ho una carriera alle spalle e so di cosa parlo. I Social sono uno strumento importante se vengono usati in un certo modo: ad esempio danno a un corridore la possibilità di firmare un contratto con un’azienda. Una visibilità importante. Ma non si deve confondere la professionalità con un semplice messaggio che si ha la fortuna di mandare con i telefoni o con i computer. I Social hanno dato la parola a tutti, me compreso, ma non bisogna dimenticare la gerarchia che esiste nella vita».

L’intervista più pazza?

«Le interviste sono tutte belle, ma quella che ha fatto più scalpore è stata quella con Fabio Aru sulla storia del guadagno nell’UAE. L’ho paragonato a David Coperfield. Si è trattato un momento forte. Nelle interviste parli a tu per tu e si arriva a spunti originali come la passione di Nibali per i Lego o quando nella diretta con Alberto Bettiol ho detto che aveva vinto la Parigi-Roubaix, invece era il Fiandre. Con ognuno di loro c’è stato qualcosa di bello».

Quella più difficile?

«Quella con Samuele Manfredi. Mi misi a piangere, perché chiedere a un ragazzo di 17-18 se avesse potuto camminare ancora e ricevere un “No” in risposta, mi fece rimanere di ghiaccio».

Il personaggio con cui si è divertito in maniera particolare?

«Io mi ispiro a Pio e Amedeo e questo fa capire già che tipo di persona sono. Il personaggio che mi ha colpito più di tutti è stato Tadej Pogacar, per la sua semplicità. Parlando delle dirette, invece è stata quella con Vincenzo Nibali. Non mi sarei aspettato che venisse in diretta con me, è molto riservato. La diretta con Eddy Merckx, invece, è stata la più prestigiosa, ce l’ho ancora salvata: ridere e divertirsi insieme al Cannibale è stato fantastico».

Colbrelli o Sagan?

«Sonny. Ho anche un tatuaggio con il nome Sonny, è per mio figlio, ma ogni volta che Colbrelli vince gli dico “Guarda sono l’unico che ha un tatuaggio per te”».

Van der Poel o Van Aert?

«Van der Poel. Perché Van Aert è forte, è tutto l’anno lì, ma in questo ciclismo c’è bisogno di spettacolo».

Pogacar o Roglic?

«Tadej. È troppo forte, quando mi vede già da un chilometro comincia a ridere».

Evenepoel o Bernal?

«Bernal, perché ha portato a casa già dei grandi risultati. Evenepoel è in una squadra super, con Davide Bramati e ha dei grandi margini. Vedremo a fine carriera».

Giudizi sulla stagione, top e flop: chi le è piaciuto di più e chi meno?

«Grande stagione per noi italiani. Nei Grandi Giri Bernal e Pogacar hanno dimostrato di essere superiori. Sonny Colbrelli è quello che mi ha sorpreso di più: è riuscito finalmente a realizzare e a concretizzare quello che è realmente. Tra i flop Van Aert, soprattutto al mondiale è andato al di sotto delle attese. Evenepoel non va bocciato: è giovanissimo e potrà fare grandi cose».

Una sua sfida personale per il futuro?

«Il mio sogno nel cassetto è continuare a raccontare il ciclismo per anni: c’è bisogno di persone che ci mettano la faccia, come me. Mi auguro di avere ancora più visibilità per portare avanti il ciclismo. Non mi vedo dietro a una scrivania, voglio raccontare il mio mondo insieme ai corridori».