Sentite la Ragusa: «Al mondiale di Imola ho capito quanto valgo. Mi ispiro a Cancellara e Evans»

Katia Ragusa ai Mondiali di Imola 2020
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Aveva cinque anni, Katia Ragusa, quando iniziò a sentire il bisogno di pedalare sempre più forte e possibilmente contro gli altri. Era talmente piccola che a opporsi alla sua volontà non furono nemmeno i genitori, appassionati di ciclismo, bensì i regolamenti: fino ai sei anni non era possibile correre.

Aspettò un altro anno. La sua famiglia era convinta che ci avrebbe ripensato, si sa come sono fatti i bambini: e invece, non appena poté, Katia Ragusa si rifece avanti con la solita domanda. Suo zio aveva corso e così anche suo padre, che nel tempo aveva perfino allenato alcuni dilettanti della zona (Schio, Vicenza): dirle di no, a maggior ragione di fronte a cotanta insistenza, era impossibile.

Ripensando ai suoi inizi, Ragusa ricorda in particolar modo l’agitazione e la goffaggine. «Credo che dipendesse tutto dalla passione: avevo così tanta voglia di pedalare e di mettermi in mostra che alla fine perdevo il controllo su tutto. E poi ero davvero piccola, forse anche troppo, di coetanei e coetanee che condividevano le mie peripezie ne ricordo pochissimi».

I due idoli

Una passione non casuale, ma talmente profonda da non saperne indicare la provenienza: è successo e basta, Katia Ragusa s’è innamorata del ciclismo come un’altra persona avrebbe potuto innamorarsi di qualcos’altro. Nessun colpevole, ma due indiziati sì: Cancellara ed Evans, due corridori agli antipodi. Alto, forte e amante delle classiche il primo; basso, compatto e a suo agio in salita il secondo: cosa li accomunava, se non il successo?

«Ve lo dico io – incalza Ragusa – il modo in cui correvano: soffrivano e non lo nascondevano, non si arrendevano mai, provavano a lasciare il segno anche quando nessuno se lo sarebbe aspettato. La loro carriera è stata in costante ascesa, il destino li ha regalato soltanto il talento: il resto hanno dovuto mettercelo loro».

Se il palmarès li fa sembrare irraggiungibili, il piglio glieli rende immediatamente più vicini: insomma, Katia Ragusa non avrà vinto un Tour de France o una Parigi-Roubaix, ma il carattere con cui porta avanti la propria carriera ciclistica non è poi così diverso da quello di Cancellara e di Evans (e di molti altri corridori, che adottano un profilo basso senza per questo essere remissivi).

Carattere e istinto

«Sono una testarda, io. Magari non sembra, ho un viso pulito e 23 anni appena, ma vi posso assicurare che quando sono convinta d’avere ragione non c’è nessuno che possa farmi ritrattare». Nemmeno il fidanzato, col quale cerca di stare tutte le volte che può – vale a dire quando non deve correre né allenarsi.

«Però adesso va molto meglio. All’Astana(da quest’anno A.R. Monex Women’s Pro Cycling Team, ndr) c’è un’organizzazione diversa, si disputano meno corse ma quand’è il momento di gareggiare si fa sul serio. Finché ero alla Bepink, ovvero fino al 2019, correvo molto di più. Perfino troppo, direi».

L’istinto, invece, secondo Ragusa non è mai abbastanza: è quello che la muove in corsa, quando gli eventi si verificano così alla svelta da non lasciare il tempo di rifletterci sopra. Ci sono dei momenti, nel ciclismo, durante i quali non si può far altro che alzarsi sui pedali e seguire il flusso della corsa.

L’esperienza iridata

Ragusa lo ha fatto splendidamente ai campionati del mondo di Imola: era il suo primo nella massima categoria, ma vedendola correre chi lo avrebbe mai detto? «Ero emozionata e motivata, si capisce, ma impaurita proprio no: giusto qualche brivido. Sarebbe stato un problema se non avessi provato niente: ho avuto la fortuna di correre il mio primo mondiale sulle strade italiane, non avrei mai creduto di sentir ripetere così tante volte il mio nome. È stato di gran lunga il giorno più bello della mia carriera, almeno per ora».

Katia Ragusa in azione durante i Mondiali di Imola 2020

Inappuntabile, la sua condotta di gara: è entrata nell’azione più importante della giornata (con lei anche la Brennauer e la Pieters, nel 2019 campionessa europea), non ha tirato un metro perché il suo capitano – Elisa Longo Borghini – era nel gruppo che inseguiva e quando è stata riassorbita ha trovato le ultime stille di energia per tenerla il più possibile nelle prime posizioni. Alla fine della corsa, dopo aver conquistato la medaglia di bronzo, la Longo Borghini ci teneva a ringraziare tutte le sue compagne, ma in particolar modo Cavalli e Ragusa, di gran lunga le più brillanti.

Indefinibile

Che quest’ultima stesse bene lo si era già visto: quarta nell’ultima tappa del Giro Rosa, quindicesima nella classifica generale a meno di due minuti dal decimo posto. Katia Ragusa sta diventando un’atleta sempre più solida e affidabile, anche se non saprebbe come definirsi con esattezza.

Scalatrice? «No, per l’amor di dio, soltanto a pensarci mi fa impressione». Più adatta alle classiche, allora. «Sì e no: in salita mi difendo, ma non devono essere né troppo lunghe né troppo dure; sono resistente, dunque piuttosto adatta alle corse a tappe; ma allo stesso tempo la mia corsa preferita è il Giro delle Fiandre, una delle classiche per eccellenza: da quando sono professionista l’ho disputata già quattro volte, un misto di fatica ed emozioni, di difficoltà e di pubblico che non mi lascerà mai indifferente».

Spavento e fatica

Katia Ragusa, testarda e istintiva, conosce anche la paura. Tre anni fa, nel corso della terza tappa del Tour de l’Ardèche, la provò sulla sua pelle finendo in una scarpata: le conseguenze (polso fratturato, sopracciglio e ginocchia lacerati) furono risibili se comparate allo spavento. E più che la paura, forse l’angoscia: non credere abbastanza nelle proprie capacità, temere che al ciclismo femminile non venga mai riconosciuto il valore effettivo che possiede.

«Non credo che la nostra fatica valga meno di quella degli uomini – spiega Ragusa – anche perché di spettacolo ne diamo più noi donne, molto meno dipendenti dalle tattiche di gara e dalla tecnologia dei nostri colleghi. Forse noi atlete dovremmo farci sentire ancora di più, ma mi rendo conto che non è semplice: finisce sempre che ci concentriamo sugli allenamenti e sulle gare e perdiamo di vista tutto il resto».

Uno scatto ai tempi della Nazionale juniores in occasione dei Mondiali di Ponferrada 2014. Katia Ragusa è la seconda da sinistra. Assieme a lei: Nicole Nesti, Sofia Beggin, Sofia Bertizzolo, Sara Wackermann e Alice Gasparini

Timidezza

Per quanto strano possa sembrare dopo tutto quello che abbiamo scritto, se c’è un tratto del carattere di Katia Ragusa più marcato degli altri è la timidezza. Forse è per questo che da bambina era così impacciata, probabilmente è anche per questo che si affida così tanto all’istinto: se si fermasse a riflettere, chissà quando si deciderebbe a muoversi. Ma la timidezza è un tappo, una volta tolto il gioco è fatto.

«Me ne sto rendendo conto: mi sento sempre più forte e a mio agio a certi livelli, le mie avversarie sono le migliori atlete del mondo. Dovrei ascoltare di più chi mi sta vicino, non si può avere sempre ragione. E la mia timidezza me la tengo stretta, anche se a volte mi frena: non la cambierei per niente al mondo». Come se la timidezza fosse un difetto, poi.