«Non ce la faccio», poi lo scatto: così Taccone vinse il Lombardia più duro di sempre

Giro di Lombardia 1961: sul terribile Muro di Sormano, Vito Taccone alla ruota di Imerio Massignan.
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«Ho i crampi, non ce la faccio». Vito Taccone, accucciato alla ruota di Imerio Massignan, non mentiva, o meglio mentiva in parte. L’altro gli chiedeva collaborazione per andare al traguardo, lui rispondeva picche.

Ventuno ottobre 1961, finale di quello che sarebbe passato alla storia come il Giro di Lombardia più duro di sempre. Vincenzo Torriani, direttore di corsa, si era dato la missione di incattivire sempre di più il percorso, per evitare la volatona finale. L’anno prima aveva trovato una salita micidiale, il Muro di Sormano, e l’aveva fatta collaudare proprio a Massignan, scalatore tra i più forti in carovana. Test soddisfacente, il Muro aveva debuttato nel 1960, ed era stato un festival di sofferenza, piedi a terra e spinte pietose. Non pago, l’anno dopo Torriani aveva inserito anche un’appendice sterrata al Ghisallo, un supplemento di fatica che con buona fantasia fu chiamato Superghisallo.

Lombardia cattivo: sul Muro di Sormano va via Massignan

Torriani voleva selezione, e l’aveva avuta. Sul Ghisallo si era scatenato Gastone Nencini, trionfatore al Tour l’anno prima; sul Superghisallo aveva battuto il ritmo Aldo Moser. Ma il Muro di Sormano aveva cambiato completamente le carte in tavola: mentre si dissolveva sulla crudele pendenza la nobiltà straniera (Anquetil e Poulidor gli ultimi a cedere, mentre Van Looy e Bahamontes erano già out) avanti a tutti si portavano due della Legnano, Massignan e Fontona, e uno della Atala-Pirelli. Vito Taccone, appunto.

Abruzzese di Avezzano, origini povere e fame atavica, era al primo anno da professionista, ma si era già fatto notare. Piccolo e compatto, al Giro d’Italia aveva dominato in salita, scattava e faceva il vuoto. Lottava, si agitava scomposto e se necessario litigava con tutti. Nel corso degli anni successivi, Zavoli ne avrebbe fatto un personaggio di grandissima popolarità. Alla vigilia di quel Lombardia in pochi lo mettevano tra i favoriti, lui si aggirava tra giornalisti e addetti ai lavori ringhiando: «Domani vinco io».

In cima al Muro di Sormano, primo Massignan, Taccone aveva accusato 15”. Dopo la discesa, verso il traguardo di Como, Fontona era crollato e l’abruzzese aveva trovato le forze per riportarsi su Massignan.

All’ingresso della pista bastò uno scatto, e Taccone fece il vuoto

Eccoli quindi nell’ultimo tratto del Giro di Lombardia, Massignan che protesta e Taccone che si defila e si dipinge distrutto, quasi rassegnato alla sconfitta. Sapeva però che l’avversario, uno dei più grandi piazzati della sua epoca, era praticamente fermo in volata. C’era solo da arrivare alla sua ruota fino all’ingresso dello Stadio Sinigaglia, il resto sarebbe venuto da sé.

Così fu: entrato in pista, Taccone cambiò marcia, Massignan si alzò sui pedali per un momento, poi ricadde battuto. La vittoria della furbizia e della dissimulazione? Non proprio: dopo l’arrivo Taccone fu portato via a braccia, era realmente sfinito.

Nel ciclismo la beffa è dietro l’angolo: nel 1993 toccò a Ballerini, ma…

Qualcosa di molto simile, e sempre con arrivo in pista, si sarebbe visto molti anni dopo, nel 1993, sul traguardo della Parigi-Roubaix. Quella volta fu Duclos-Lassalle a darsi per morto, chiedendo a Ballerini la grazia di tenerlo a ruota, prima rianimarsi in volata e vincere per pochi centimetri. Franco maledì se stesso, ma a Roubaix tornò ancora e trionfò due volte. Una rivincita che il povero Massignan non riuscì mai a prendersi.