La chiusura improvvisa della Palazzago ha lasciato diversi punti interrogativi sulla salute del nostro movimento dilettantistico. E attenzione, non stiamo parlando di risultati, bensì di sostenibilità a livello economico e sportivo di una squadra Under 23 tradizionale con alle spalle una lunga storia.
Dopo aver commentato la notizia con Paolo Tiralongo, direttore sportivo della squadra nelle ultime stagioni, abbiamo coinvolto anche il diretto interessato, ovvero quell’Ezio Tironi, presidente del team, che da anni portava avanti con passione e sacrifici il nome della Palazzago in giro per tutta l’Italia.
Tironi, partiamo dal principio. Dove e quando nasce l’idea di chiudere i battenti?
«L’idea mi girava in testa già da qualche anno. Si faceva fatica ad andare avanti, ogni stagione era peggio di quella precedente. E in certi casi la passione, per quanto possa essere grande, non basta più».
Andiamo alle cause.
«I motivi sono molteplici. Sull’aspetto sportivo i risultati, come avete potuto vedere, stentavano ad arrivare. La Palazzago è sempre stata abituata a correre da protagonista, ad essere lì davanti a lottare nelle corse più importanti del calendario. Da qualche stagione a questa parte invece siamo diventati delle comparse e non è accettabile».
A cosa è dovuto?
«Qui ci colleghiamo al secondo e principale aspetto della vicenda, quello economico. Ovviamente non potendo contare su un budget ampio, non potevamo ingaggiare corridori di prima o seconda fascia, accontentandoci di ragazzi che, pur volenterosi, non possedevano lo stesso talento degli avversari. Ma il problema è a monte…».

Si spieghi.
«C’è fatica a reperire gli sponsor, ma questo non succede perché in Italia non ci sono aziende pronte ad investire, bensì perché nel nostro paese queste figure non vengono tutelate. Mi riferisco all’Agenzia delle Entrate che fa benissimo il suo lavoro e giustamente va alla caccia di evasori fiscali e delinquenti: il problema è che per gli errori di pochi, pagano tutti».
Cioè?
«Ci trattano come dei ladri, pronti ad arricchirsi sulle spalle dello stato con la scusa della società sportiva. Quando si investe si va incontro a dei rischi economici e penali, basta una virgola o uno “zero” sbagliato e si incorre in sanzioni durissime. Si finisce sempre con il rimetterci soldi personali. E la Federazione non fa nulla per aiutarci».
Cosa dovrebbe fare la Federazione?
«Sicuramente snellire il lavoro delle squadre. Questi dirigenti attuali non ci aiutano, anzi inseriscono ogni anno vincoli e cavilli. Faccio un esempio: prima ogni squadra poteva contare su molti volontari appassionati, ora il loro lavoro deve essere regolarizzato, con contratti e tasse da pagare. Ma sono gli stessi volontari a non voler essere assunti. Così si hanno più spese e meno personale attorno alle squadre. Ma non è finita qui…».
Prego.
«Vogliamo parlare delle assicurazioni? Prima era presente un’assicurazione della Federazione che copriva molto in caso di incidente, ora nemmeno il minimo indispensabile. Siamo noi a doverli assicurare, incrementando le spese. E poi i preparatori, il motivatore, i dietologi. Chi li paga?».

Dovrà pur esserci una soluzione.
«Innanzitutto non bisogna trattarci come dei delinquenti. Non ho mai avuto controlli sulla mia attività perché ho fatto sempre tutto in modo regolare, e non mi va giù questo controllo asfissiante che c’è oggi in Italia sulle società sportive. Riscontro questo problema anche in altre formazioni…».
C’è il rischio che chiudano altre squadre?
«Non farò nomi, ma vi assicuro che succederà e a cadere saranno anche le squadre più grandi. La situazione è uguale per tutti: gli sponsor scappano perché sono spaventati e nessuno li tutela. Anche gli organizzatori non hanno più voglia di mettere su delle squadre».
Riscontra gli stessi problemi?
«Anche peggiori. Nella bergamasca, terra di grande ciclismo, fino a qualche anno fa c’erano corse tutte le settimane, ora si possono contare sulle dita della mano. A me dispiace tantissimo, ho iniziato quando avevo dieci anni a correre in bici e ora ne ho 63. Il futuro dello sport italiano, specie del ciclismo, è buio. Ci stanno superando tutti…».
In che senso?
«Belgio e Olanda sono paesi molto più piccoli rispetto a noi, ma vedono il ciclismo come un valore da tutelare e così riescono ad andare avanti. Nel mentre ci siamo fatti superare da paesi come la Danimarca, l’Australia e soprattutto il Regno Unito, paese in cui quando correvo io probabilmente non sapevano neppure montare una camera d’aria. Adesso ci bastonano e danno lezioni».