Van Vleuten lascia e diventa una strada: la Campionissima ha cambiato il suo mondo

Annemiek Van Vleuten, 40 anni, in maglia rosa all'ultimo Giro Donne (foto Massimo Fulgenzi/SprintCyclingAgency©2023)
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A Valkenburg, in cima al Cauberg, da oggi si può passare in Annemiek van Vleuten Allee. Le hanno intitolato una strada perché non potevano chiamare come lei tutte quelle su cui ha sparso la sua classe come polverina magica, distillando il suo talento, la sua curiosità per la vita, per gli incontri, per le persone, persino per le lingue degli altri. De Campionissima la chiamano nella sua Olanda, utilizzando quel superlativo assoluto che era stato di Fausto Coppi. Non suoni blasfemo, van Vleuten regge qualsiasi paragone. Oggi, a quarant’anni, Annemiek ha corso la sua ultima gara da professionista, al Simac Ladies Tour, a pochi chilometri da casa, a due passi da dove vive il suo compagno Oscar, in mezzo alle facce amiche che lei comunque ha sempre saputo trovare anche dall’altra parte del mondo. Non c’è stato paese che non sia stato casa per lei. Né compagno di allenamento troppo forte. Né intervista da snobbare: erano tutte occasioni per conoscere, sapere, chiedere, finiva sempre che le domande le faceva lei.

Ah sì, dovremmo forse partire da quello che ha vinto – 4 mondiali, un oro e un argento ai Giochi Olimpici, un campionato europeo, 8 grandi Giri (4 volte il Giro, 3 volte la Vuelta, 1 Tour), 2 Fiandre, 2 Liegi, 2 Strade Bianche, in tutto 104 corse – ma il paradosso è che i suoi straordinari successi non raccontano che una minima parte di Annemiek. Una donna profonda, empatica, dolce, determinata, ostinata. Qualità che non sempre si accompagnano all’essere fuoriclasse: spesso è forte la tentazione di piacersi troppo, e di giustificarsi in ogni occasione. Nel suo discorso di addio non ha dimenticato nessuno, direttori sportivi, chef, addetto stampa, autisti, perché una squadra è una squadra, e si vince e si perde tutti assieme. Quando hai una campionissima come lei più spesso vinci, ma questi sono dettagli. Annemiek ha vissuto con gusto la sua storia di professionista, godendosi anche i lunghi periodi in altura, quelli che annoiano tutti tranne lei, lei li faceva diventare avventure. Si è preparata alla sua ultima stagione in Colombia, come ha fatto dal 2020, vivendo sei settimane ai piedi delle Ande e facendo pratica con lo spagnolo. È affascinata dalla cultura colombiana e dalla natura incontaminata. Ama allo stesso modo la Sardegna, ma quella che pulsa lontano dalle rotte turistiche. In Colombia lo scorso inverno dormiva non lontano da Medellin, a un’altitudine di circa 2.500 metri. Le ultime settimane le ha trascorse a Paipa, nella regione di Boyacá, allenandosi con i più forti Under 23 colombiani. Il suo obiettivo era togliersi abitudini e certezze, uscire dalla sua zona di comfort, mettersi eternamente alla prova. «In un ambiente familiare rimani al sicuro, non vai mai oltre i tuoi limiti. Stare fermi vuol dire andare indietro». Lei è sempre andata avanti. Il tempo passato in Colombia, «il paese ideale per il ciclismo», le dava l’energia per tornare in Europa da Campionissima. «Amo la montagna e il sole, sono nata nel paese sbagliato», rideva. Prima donna a conquistare la vetta dell’Izoard, nel 2017, prima sullo Zoncolan l’anno dopo. Si è allenata spesso con i colleghi maschi. In Colombia pedalava con Esteban Chaves, ha girato in bici Portogallo e Spagna con i gemelli Yates. Ma il suo posto del cuore è Livigno: il solito hotel, i soliti amici, tanti allenamenti e una birretta la sera. 

Giro Donne
Annemiek Van Vleuten vince la seconda tappa del Giro Donne 2023

La svolta della sua storia di atleta è stata la corsa olimpica di Rio. Mentre Anna van der Breggen si vestiva d’oro sulla spiaggia di Copacabana, Annemiek era in un fosso a una decina di chilometri da lì, praticamente morta. La campionessa olimpica, che era stata una delle prime a passare dove Annemiek era caduta, confessò di averla creduta morta. Invece fu proprio lì, in fondo a quel fosso, che nacque De Campionissima. «Rio è stato il giorno più bello della mia carriera ciclistica. Vedere quanto fossi forte è stata la base per sviluppare la mia storia di ciclista in seguito. È stata la prima volta nella mia vita che sono riuscita a fare una differenza così in salita». Noi abbiamo negli occhi quella caduta rovinosa, lei no. «Gli ultimi chilometri di quella salita in realtà mi hanno ispirato a ottenere ancora di più dalla mia carriera. Non la caduta, la salita: quella è la base delle mie prestazioni da lì in avanti». Il suo obiettivo per quelle Olimpiadi era competere con le migliori. Ci ha lavorato con il suo allenatore, Louis Delahaije. I risultati non sono arrivati a Rio: ai Giochi non ha raccolto, è finita in quel fosso. Ma prima è riuscita a essere la migliore. E quello l’ha ispirata. C’è molto di Delahaije nella Campionissima che è diventata. È lui l’uomo che l’ha convinta ad allenarsi come i suoi colleghi maschi, senza alibi. Ci sono atleti che raggiungono la vetta facendo cose molto estreme, van Vleuten no. Non ha mai puntato alla perfezione: il suo intento era divertirsi, forse per quello è diventata praticamente perfetta. «Ho sempre cercato di pedalare con il sorriso sulle labbra». Non ha mai accettato orari troppo precisi e altre rigidità, tutte cose che le sarebbero costate uno spreco di forza mentale. «Non è scienza missilistica, è solo ciclismo. Gli stage in quota mi hanno permesso di aumentare il mio volume di allenamento ma non per le buffonate, le rigidità. Solo perché mi piace molto allenarmi all’estero, stavo bene».

Anche qui Annemiek era in Italia, paese che ama moltissimo: era il Giro del 2020, in autunno, nell’anno della pandemia

Al ciclismo è arrivata tardi. Prima faceva equitazione, giocava a calcio, e andava all’università. Faceva tardi la notte, andava alle feste, beveva birra e mangiava quello che voleva. Dopo la laurea in epidemiologia, si è messa a studiare per la tesi di dottorato, chiusa in un ufficio, ma non era quella la vita che aveva immaginato. La aiutò il pallone: dopo un paio di menischi saltati, i medici le dissero che poteva ancora fare sport, ma bicicletta o piscina, nient’altro. Scelse il ciclismo perché le sembrava meno noioso, ed è diventata Annemiek Van Vleuten. La sua storia è stata piena di ostacoli e di fratture. Ma la sua capacità di gestire gli impedimenti è sempre stata uno dei suoi punti di forza. Tre interventi chirurgici tra il 2009 e il 2013 per le arterie iliache ostruite. La morte di suo padre di cancro. «Avevo 22 anni e ho imparato molto dalla sua malattia. Dal modo in cui l’hanno affrontata i miei genitori. Non rimanere bloccata nella delusione o dal dolore è qualcosa che ho preso da loro. Qualcosa che è nei miei geni, non puoi allenarlo». Però puoi farti aiutare. Curiosa, e studiosa, van Vleuten anni fa ha scelto di farsi affiancare dalla psicologa dello sport Karin de Bruin. 

Cinque anni fa l’Università di Maastricht ha realizzato un profilo del suo Dna per ottenere informazioni su alcune delle sue principali qualità sportive. L’aspetto più sorprendente erano i progressi che van Vleuten continuava a fare anche in un momento in cui la carriera normalmente declina. «Quando sento dire che sono vecchia, non penso mai che stiano parlando di me». L’anno scorso ha vinto nella stessa stagione il Giro, il Tour e la Vuelta, ma anche la Liegi-Bastogne-Liegi e il mondiale, il secondo della sua vita. Ha scelto di smettere quando era ancora al massimo. «È davvero abbastanza strano che a quasi quarant’anni io continui a migliorare ogni anno. Ma una spiegazione forse c’è. Ho iniziato ad andare in bicicletta molto più tardi rispetto alle altre. Come atleta sono ancora relativamente fresca, una ragazza». Da ragazza smette, e viaggia verso la sua nuova vita.