Romele, dal Liberazione alla Roubaix: «E’ un obiettivo stagionale. E se andare all’estero fosse anche una moda?»

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Alessandro Romele al Gran Premio Liberazione di Roma, vinto sul danese Wang
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Non appena ha tagliato (in quindicesima posizione) il traguardo del Circuito del Porto, Alessandro Romele s’è visto venire incontro Beppe Colleoni, il presidente della sua squadra, la Colpack, che voleva mostrargli un video, un frammento del recente passato: la ricognizione di Filippo Ganna in vista della Parigi-Roubaix Under 23 del 2016.

«Se non ricordo male in ammiraglia c’era Beppe Di Leo – racconta Romele – Fa un certo effetto vedere un campione come Ganna che indossa la maglia della formazione in cui corro io adesso. L’atmosfera era distesa, stava scherzando. Diceva una cosa del tipo: non pedalo forte oggi per dare tutto in gara. E poi chiudeva con un augurio: speriamo di fare un bel regalo al presidente Colleoni. Andò bene, visto che arrivò da solo nel velodromo di Roubaix».

Alessandro, in questi giorni sei tu ad essere in partenza per l’Inferno del Nord riservato agli Under 23.

«Partiremo sabato mattina, proprio alla vigilia della gara che si correrà, infatti, domenica. E’ un peccato, sarebbe stato meglio arrivare oggi o domani, ma capisco che per alcune difficoltà logistiche era impossibile fare diversamente. Nessuna scusa, dovremo dare il nostro massimo. Non ci schiereremo alla partenza con la stessa conoscenza del percorso di altre squadre, ma sabato riusciremo comunque a pedalare su qualche settore».

Saranno ventidue, per trentacinque chilometri sulle pietre. Centosessantacinque, invece, quelli complessivi.

«Non ho mai pedalato su quel pavé, nemmeno tra gli juniores, quindi sarà una prima volta. Le classiche sono le corse che mi piacciono, le monumento sono quelle che un giorno sogno di vincere tra i professionisti. Non mi nascondo, alla Parigi-Roubaix vado per correre come dico io. Non sono uno a cui piace imporsi un risultato, non lo faccio mai, ma sono alla ricerca di una bella prestazione. E’ un obiettivo stagionale, ne parliamo fin dal ritiro invernale di Calpe».

Cosa significa correre come dici tu?

«Io ho sempre corso all’attacco, facendo tanta fatica e prendendo tanta aria in faccia. E’ il mio stile, la mia cifra distintiva, fin dalle categorie inferiori. Ultimamente me n’ero scordato, tendevo a rimanere troppo al coperto finendo per subire la corsa e le manovre delle altre squadre. Ho capito nuovamente che per vincere devo prendere la gara per le corna, senza chiudermi e senza nascondermi. Anche perché, per quello che ho potuto capire tra Parigi-Tours l’anno scorso e Gand-Wevelgem quest’anno, nelle classiche internazionali si corre così».

Hai interpretato il Liberazione nella stessa maniera.

«Il successo di qualche giorno prima alla Coppa Zappi mi ha sbloccato, rompendo il ghiaccio ho trovato nuove consapevolezze. Non dico che sono arrivato a Roma per il Liberazione sicuro di vincere, ma avvertivo una sensazione strana, quasi premonitrice. Avevo le idee chiare: volevo interpretare la corsa in una certa maniera e così ho fatto, andando all’attacco fin da subito e gestendomi alla perfezione».

Eri da solo in mezzo a due compagni di squadra e in alcuni passaggi il circuito del Liberazione permetteva il contatto visivo col gruppo.

«Sì, dopo il traguardo e all’ultimo chilometro, con la curva a gomito a sinistra che immetteva nel tratto di discesa conclusivo. Io non volevo che il gruppo ci vedesse, quindi spingevo affinché il nostro vantaggio rimanesse superiore al minuto. Ad un certo punto, un po’ per la stanchezza e un po’ per le accelerazioni alle nostre spalle, il divario si era assottigliato, ma io ho cercato di mantenere alta l’andatura e la motivazione anche parlando con gli altri due. E non appena da bordo strada qualcuno mi diceva che il gruppo rallentava, io ne approfittavo per aumentare l’andatura».

Hai mai pensato di seminare gli altri due per provare ad arrivare da solo?

«Ad un certo punto sì, perché li vedevo stanchi e non sapevo come si sarebbero potuti comportare in una volata ristretta dopo così tanti chilometri di fuga. Poi mi sono detto: no, continua a rimanere fedele alla tua idea di gara. Così cos’ho fatto, ad ogni uscita di curva e ad ogni rilancio mi mettevo in testa e sfruttavo la mia esplosività, così da rendere loro più complicata la vita. Una tattica che ha sortito i suoi effetti, visto che uno si è staccato. In volata sono stato anche fortunato, Wang ha preso l’ultima curva in testa e io l’ho sfruttato come punto d’appoggio. Comunque è un bel corridore, è stato campione del mondo nelle cronometro tra gli juniores nel 2021 e lunedì è arrivato secondo anche a Francoforte».

Quanto influiscono le imprese dei grandi campioni sul modo in cui i più giovani interpretano le gare?

«Sai, da piccoli non ci si fanno mai molte domande, quindi attaccare e provare a staccare tutti è la normalità, è il divertimento principale, è il succo dell’attività. Per quanto mi riguarda ho sempre corso senza fare troppi calcoli. A me questo ciclismo piace, lo sento mio, ma se mi metto nei panni di un velocista mi sento male. Il velocista puro, quello che ha bisogno della squadra per essere scortato fino all’arrivo, è destinato a scomparire. Nel ciclismo di oggi, chi non è abbastanza resistente, sveglio e in grado di cavarsela da solo non va molto lontano».

Sei un’eccellenza italiana che corre in un’eccellenza italiana, la Colpack-Ballan. Cosa pensi dei tuoi coetanei che scelgono di andare a correre all’estero?

«Consapevole di tirarmi addosso qualche polemica e qualche malumore, è un’idea che non condivido del tutto. Non c’è dubbio che all’estero lavorano bene e che le development permettono un certo avvicinamento al professionismo, ma io credo che non siano adatte a tutti. Mi pare una moda, se devo essere sincero. Sono sicuro che entro qualche anno diversi di loro rientreranno a correre in Italia. Il nostro paese è ancora assolutamente in grado di insegnare ciclismo. Vengono a correre dall’estero, organizziamo gare come le classiche internazionali e il Giro d’Italia, la Colpack negli ultimi anni ha sfornato tantissimi validi corridori. Non siamo la periferia del ciclismo, come in molti adesso vorrebbero farci credere».

Cosa ti manca per far parte in pianta stabile del professionismo?

«Un po’ d’esperienza e di maturità, niente che non si possa acquisire col tempo. Io stesso, quest’anno, avrei potuto lasciare la Colpack per accettare l’offerta di una squadra di sviluppo straniera, ma non l’ho fatto perché qui sono coccolato, spronato, valorizzato, responsabilizzato. Mi piacerebbe vincere tante altre gare per sdebitarmi con la squadra. Una su tutte? Forse il campionato italiano, visto che nel 2021 l’ho vinto tra gli juniores e che lo scorso anno ho chiuso quarto al primo tentativo tra gli Under 23. Senza dimenticare la maglia azzurra: mi piacerebbe lasciare il segno anche con la nazionale di Amadori».