
Claudio Lastrucci, patron dell’Hopplà intesa come azienda e anima (con Matteo Provini) della Hopplà-Petroli Firenze-Don Camillo intesa come squadra di ciclismo, stamattina si è svegliato più contento del solito. O forse soltanto meno arrabbiato.
«Ieri è stata una bella giornata. A La Penna, in Toscana, abbiamo fatto primo e secondo con Regnanti e Manenti. Peccato, invece, per com’è andata a finire al Circuito del Porto. A qualche centinaio di metri dall’arrivo, a tirare il gruppo a sessanta all’ora, c’eravamo noi. Purtroppo, sul più bello, a Gomez sono mancate le gambe e non è riuscito ad andare oltre il dodicesimo posto, appena davanti a Nencini, tredicesimo. All’arrivo piangeva, era disperato e dispiaciuto: ha buttato via una grande chance e non ha saputo darsi una spiegazione, ma il ragazzo e il corridore ci sono, senza dubbio».
Eppure Claudio non bastano nemmeno i risultati a mitigare il tuo malumore.
«Io lo dico chiaro e tondo: se non cambia qualcosa, il dilettantismo italiano rischia di morire nel giro di qualche anno. Io sono arrabbiato, Matteo Provini è arrabbiato. E non siamo i soli. Io non voglio fare né la vittima né il difensore del popolo, ma siccome sono sanguigno e appassionato non ce la faccio più a stare zitto. Da dove comincio?».
Dall’allestimento della formazione: quant’è diventato difficile per una squadra come la vostra?
«E’ diventato complicatissimo. E attenzione, io so già quello che diranno in molti leggendo quest’intervista: ma come, parlano proprio Lastrucci e Provini che hanno un bel budget e si tolgono le loro soddisfazioni? Avrebbero ragione, noi bene o male riusciamo sempre a tirare fuori degli organici brillanti, ma il dispiacere rimane soprattutto pensando a quello che potrebbe essere».
Spiegati meglio.
«Io lo scorso anno sono andato a parlare con quattro dei migliori juniores italiani: Savino, Belletta, Mattio e Conforti. Tutti e quattro mi hanno risposto picche. Il primo è andato nel vivaio della Quick Step, il secondo e il terzo in quello della Jumbo-Visma, e il quarto alla Green Project-Bardiani. Io non gliene faccio una colpa, è normale che un adolescente si senta lusingato e accetti offerte del genere, però dopo aver parlato con questi ragazzi io me ne vado con la coda tra le gambe. A quel punto dobbiamo scendere di un gradino e puntare su quei corridori bravi ma che vincono poco. Forse può essere brutto da dire, ma è così».
Insomma, anche le squadre italiane più importanti fanno fatica ad accaparrarsi i migliori talenti.
«Secondo me si dovrebbe ripensare questo passaggio. E’ una concorrenza sleale, non c’è proprio partita, come possiamo noi combattere contro questi colossi? Partiremo sempre svantaggiati. E’ chiaro che il movimento italiano rimane indietro, da questo punto di vista. E ripeto, perché non voglio fare la vittima ma fotografare la realtà: a noi ci va fin troppo bene, alla Zalf e alla Colpack idem, ma pensate a tutte le squadre più piccole».
Oltre a quella dei vivai, c’è anche la concorrenza delle continental.
«Un’altra cosa che mi fa imbestialire. Sì, ci sono diversi corridori che mi dicono: non vengo da voi perché non siete una continental. Ma facciamo lo stesso calendario, cambia poco o nulla, non può essere una Coppi e Bartali in più o in meno a pesare così tanto nella decisione. A me sembrerebbe assurdo spendere una valanga di soldi per partecipare soltanto al calendario dilettantistico italiano, come se non fossero già abbastanza quelli che investiamo».
Ma i risultati degli ultimi anni ci dicono che solitamente, all’estero, si cresce meglio e più in fretta.
«Ma io infatti non sostengo che all’estero lavorino male, ma che tra noi e le development non può esserci partita. Così come sono sicuro del fatto che tanti italiani che vanno all’estero non sono effettivamente pronti o adatti ad un salto del genere. Però entrano in ballo i procuratori e non ci si può far niente, perché i genitori e i ragazzi delegano loro a trattare. E chi s’è visto s’è visto, insomma, perché loro tirano l’acqua al loro mulino, che spesso e volentieri non è quello delle squadre».
Che rapporto hai coi procuratori?
«Ne ho visti crescere a decine, ne conosco tantissimi e alcuni, come Mazzanti o i Carera, li reputo amici. Ma francamente non mi piace sapere che molti di loro sono stipendiati per assistere dalla mattina alla sera alle gare degli allievi o degli juniores per accaparrarseli. E’ tutto troppo esagerato, ma di cosa deve aver bisogno un ragazzo di diciott’anni che non è professionista? In cosa lo aiuta all’atto pratico un procuratore? La realtà è che certe figure fanno incetta di procure nella speranza di tirare su dalla cesta il jolly che li fa svoltare. E’ un tritacarne. Io ai corridori posso offrire un rimborso spese e basta, quando mi trovo a parlare con un ragazzino che dopo aver vinto qualche gara mi manda dal suo procuratore mi cadono le braccia».
Claudio, tu sei uno di quei patron che investono soprattutto per passione, una figura che ha contribuito a rendere grande il ciclismo italiano e che adesso sta scomparendo. Tuttavia, forse troppo vincolata alla ricerca del risultato.
«E’ vero, ma chi investe parecchi quattrini ha diritto d’esigere visibilità e risultati. Comunque non deve passare l’idea che adesso in Italia siamo tutti degli improvvisati e dei nostalgici che non sanno più fare ciclismo. Provini, ad esempio, si appoggia ad un’eccellenza come il Centro Mapei. A proposito di Matteo, sai quanti ragazzi rifiutano di venire all’Hopplà perché lo temono e lo reputano un sergente di ferro? Io dico che non hanno visto e conosciuto i Ferretti e i Lefevere. Io rispondo sempre: ma volete fare il corridore o volete fare come vi pare? Il ciclismo è dedizione, sacrificio, fatica. Da capo di un’azienda di una cinquantina di persone, tuttavia, non ho dubbi: assumerei un dipendente che ha praticato il ciclismo, perché conosce il prezzo del sudore».
Una fatica che secondo te alcuni corridori provano ad aggirare.
«Io non punto il dito contro nessuno, perché non ho le prove e non mi va di sparare addosso a qualcuno per il gusto di farlo. Io dico soltanto che nel ciclismo, specialmente in quello dilettantistico, c’è bisogno di un maggior numero di controlli. Anche a sorpresa, anche a casa, anche alla partenza di ogni singola gara se necessario. Magari viene fuori che il ladro ce l’ho in seno, ma a quel punto lo saprei e non avrei problemi a cacciarlo. Non scordiamoci quello che ha vissuto il ciclismo e tutto quello che abbiamo dovuto ingoiare. Io compreso, perché è capitato che talvolta abbiano beccato uno dei miei. Ma per favore, non facciamo finta di niente e non facciamo passare tutto in cavalleria. Sono pronto a investire soldi di tasca mia e a schierare i miei ragazzi in prima fila, se necessario».