Delle Vedove: «Ho scelto il vivaio dell’Intermarché perché m’interessa crescere, non vincere»

Delle Vedove
Alessio Delle Vedove, qui in una foto del ritiro invernale (foto: Alessandro Volders / @cyclingmedia_agency).
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Era estate quando la Circus-ReUz-Technord, la formazione di sviluppo della Intermarché, ha iniziato ad informarsi su Alessio Delle Vedove: prima a luglio e poi tra la fine di agosto e l’inizio di settembre, dopo i mondiali su pista di Tel Aviv in cui il veneto ha conquistato la maglia iridata col quartetto juniores.

«La scelta non mi mancava, si erano fatte avanti tante squadre italiane e la maggior parte delle development straniere. Ma la Circus è quella che mi ha colpito di più. Mi hanno detto: stiamo pensando ad un calendario internazionale, perderai quasi sempre e farai una fatica boia, ma ti possiamo garantire che crescerai. Sinceramente non ho avuto bisogno di ascoltare altro».

L’ambiente intorno a te come l’ha presa?

«Male, ma non mi aspettavo una reazione diversa. Dalla mia parte non c’era quasi nessuno. Avevo diciotto anni e mezzo, per molti ero uno dei tanti illusi che decide di seguire una moda di cui finirà per pentirsi. Mi sono fidato soprattutto del mio procuratore, Moreno Nicoletti. Ci siamo detti che se sarebbe andata male sarebbe stata comunque un’esperienza».

E invece l’inizio è stato brillante: decimo al Tour des 100 Communes, settimo alla Youngster e ottavo alla Zuid-Kempense Pijl.

«Ci fanno sentire dei professionisti. Con la formazione del World Tour condividiamo il cuoco, la tabella alimentare, le strutture. Mi stanno dando una fiducia enorme e io non posso che provare a ripagarla. Sono il velocista principale e mi mettono a disposizione un treno di tutto rispetto. Sono galvanizzato».

Però non dev’essere stato facile abbracciare l’idea di perdere pur crescendo: sei reduce da una stagione, quella passata, in cui hai centrato una decina di successi.

«E’ stato molto più semplice del previsto. Non voglio essere ipocrita, diventare uno dei leader di una corazzata come la Borgo Molino e conquistare così tante vittorie è stato bellissimo e non rinnego niente. Ma allo stesso tempo dico che avrei rinunciato volentieri a qualche bella giornata pur di accumulare esperienza all’estero. Per ora m’interessa crescere, non vincere».

Della Borgo Molino sei stato, contemporaneamente, capitano e regista: chi te lo ha insegnato?

«Non saprei. Forse è una dote innata, ma non vorrei passare per superbo. Diciamo che a me è sempre piaciuto parecchio ascoltare, e spesso e volentieri mi è capitato di parlare con ragazzi frustrati che si lamentavano della scarsa considerazione ricevuta dai loro capitani nonostante il bel lavoro svolto. Ecco, io ho sempre cercato di farmi benvolere. Per me era normale chiedere ai miei compagni come stessero, se fossero disposti a lavorare per me o se preferivano provare ad andare in fuga. E poi, dopo la gara, per far dimenticare eventuali screzi offrivo la pizza a tutti. Mi sembrava giusto far così, non ho tante spiegazioni da dare».

Quando hai capito di avere più talento della media?

«Questa è una domanda interessante. E’ vero, l’anno scorso ho vinto parecchie gare e ho vissuto la stagione migliore della mia carriera, ma mi è bastato andare a correre all’estero per capire quanto ancora devo lavorare. In Italia, almeno tra gli juniores, potevo essere considerato uno dei migliori. In un contesto internazionale e tra i dilettanti, almeno per il momento sono uno dei tanti. Rendersi conto dei propri limiti e lacune non è mai piacevole, ma per uno sportivo è fondamentale».

I tuoi quali sono?

«Ho diciannove anni, già questo vuol dire tanto. Sono permaloso, ma non eccessivamente. E se devo dire la verità, l’impatto col Belgio è stato traumatico soltanto per certi aspetti. Non quello linguistico: parlare inglese e francese con i compagni e lo staff mi riesce e mi diverte. Diverso il discorso meteorologico. Lassù sono duri e imprevedibili anche gli allenamenti: un attimo piove, un attimo c’è il sole, poi magari fa due fiocchi di neve. E c’è vento in continuazione. Nel primo ritiro ci hanno insegnato a sentirlo e a prevederlo, nei limiti del possibile, anche osservando l’erba. Pensavo d’aver capito. Prima gara, la strada svolta, si apre un ventaglio e io puntualmente ero dalla parte sbagliata. Ho avuto la lucidità per pensare: stringi i denti, è in questi momenti che s’impara».

Hai una corsa dei sogni?

«La Milano-Sanremo, la classica più adatta alle mie caratteristiche. Sono uno sprinter piuttosto esplosivo, l’ideale sarebbe che i miei compagni mi lasciassero sempre a 170 metri dall’arrivo. Seguendo gli allenamenti della squadra sto migliorando molto in salita pur senza perdere il mio spunto veloce. La Sanremo mi piace anche perché l’ultima edizione l’ha vinta il mio idolo, Van der Poel».

Perché lui e non Van Aert?

«Perché è un fuoriclasse che tuttavia riesce a crescere stagione dopo stagione. Non si è presentato dominando fin da subito: all’Amstel del 2019 fece un’impresa, ma allora continuava a gestirsi male e a buttare via molte gare. Ha imparato sbagliando e avendo pazienza, e ogni anno continua ad aggiungere successi prestigiosissimi al suo palmarès. E poi ha un fisico incredibile: è una statua, sembra disegnato».

Non hai un velocista di riferimento?

«Elia Viviani, ché poi è stato il mio primo modello. E’ veneto come me, lui di Isola della Scala e io di Dolo, e l’ho conosciuto quando sono entrato nel giro della pista. Ad affascinarmi è stato il suo atteggiamento: silenzioso e professionale, concentrato su quello che deve fare senza distrazioni né fronzoli. Un esempio».

La precedenza, adesso, ce l’ha la strada o la pista?

«La strada, perché la squadra sta investendo molto su di me e io voglio ripagarla. Però con Marco Villa mi sento spesso e a breve butteremo giù un calendario di impegni. La pista non voglio abbandonarla, ti dà una brillantezza impareggiabile: e infatti a novembre ero in ritiro a Noto, in Sicilia, e di tanto in tanto vado a Montichiari. La mia specialità preferita è il quartetto e vincere il mondiale l’anno scorso è stato il momento più emozionante della mia carriera. Quando Ganna e gli altri hanno conquistato l’oro olimpico ho capito d’essere arrivato nel posto giusto».

Quando non pedali cosa fai?

«Innanzitutto studio: sono al quinto anno, amministrazione, finanza e marketing, frequento una scuola privata che mi viene incontro, quando sono a casa vado in presenza e altrimenti mi appoggio alle dispense. Nel tempo libero che mi rimane, cerco di non pensare al ciclismo: ho un gruppo d’amici e compagni di classe, ragazzi e ragazze, coi quali mi capita di uscire e fare qualche aperitivo. Mi distraggo, insomma».

Perché hai scelto di andare a correre all’estero?

«Non ho niente contro le squadre italiane. Mi hanno cercato, come dicevo, e le ringrazio dell’interessamento. Conosco bene Luciano Rui della Zalf e non si può non riconoscere la grandezza della Colpack, però sentivo che all’estero avrei imparato di più. Detto banalmente, sono più avanti: con le metodologie d’allenamento, coi calendari, con le strutture. Io, fino a qualche mese fa, non avevo né un preparatore né un nutrizionista. Adesso mi spiegano cosa e perché mangio, quanto gonfiare le ruote in base al mio peso e alla pressione atmosferica, come gestire i periodi d’allenamento tra una corsa e l’altra. Se tornassi indietro, sceglierei nuovamente di andare all’estero».