Il giovane Sagan raccontato da Slongo: «Umile, giocherellone e un talento fuori dal comune»

Sagan
Un giovanissimo Peter Sagan ai tempi della Liquigas, la squadra con cui passò professionista
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Quando Paolo Slongo prese la macchina per viaggiare fino in Slovacchia, mai avrebbe pensato di trovarsi di fronte a un futuro tre volte campione del mondo. Del ragazzo di Zilina si parlava parecchio bene in patria, ma la Liquigas era scettica. La squadra era forte, i velocisti certo non mancavano, perché scommettere su Peter Sagan? A Slongo però l’idea stuzzicava e voleva conoscerlo di persona.

«Siamo partiti con Enrico Zanardo, che conosceva bene l’ambiente slovacco e aveva portato avanti il suo nome – spiega Paolo Slongo – Arrivati a casa sua conoscemmo subito la famiglia e il ragazzo, un giovane semplice, ma affamato. Voleva fare del ciclismo un lavoro. Mi ricordo che gli portai un paio di scarpe che usavano i ragazzi della squadra dilettantistica della Marchiol: gli brillavano gli occhi».

L’impatto di Sagan con il ciclismo professionistico è stato, come sappiamo, subito positivo. Ma già dai primissimi test effettuati da Slongo sullo slovacco, si intuiva il grande talento che covava dentro di sé.

«Abbiamo passato tanto tempo insieme tra ritiri e squadre – continua il tecnico – e dal primo momento abbiamo capito che era l’uomo giusto. Sapeva lavorare benissimo in soglia e fuorisoglia, aveva una marcia in più. Riusciva a convivere con l’acido lattico nel fuori giri, più di tutti quelli che avevo testato in precedenza. È una caratteristica che ti fa tenere duro quei cinquecento metri in più dove gli altri mollano».

Nei primi anni di professionismo era inevitabile avere anche dei difetti. Lavorare con un giovane fuoriclasse non è mai semplice, specie per chi viene da un paese così “lontano” dal ciclismo tradizionale che si ha in Italia. «Inizialmente era complicato comunicare con lui – dice Slongo – Non conosceva l’italiano e il suo livello di inglese era bassissimo, poi con il tempo è migliorato. Forse era un po’ impaurito e timoroso, ma quando è diventato consapevole dei propri mezzi non lo ha fermato più nessuno. E poi gli piaceva troppo mangiare: a colazione finiva un pacchetto di muesli da solo e nei primi chilometri soffriva sempre un po’ di pesantezza. Ci abbiamo lavorato tantissimo, finché non ha tolto questo vizio».

E come persona invece com’era il giovane Sagan? «Era molto semplice, si vede che viene da una famiglia umile. È sempre restato con i piedi per terra, non è mai stato arrogante, anzi imparava dai suoi compagni e ascoltava anche i gregari. Una persona corretta, giocherellona e che sapeva quello che voleva. Un suo difetto è che è sempre stato fin troppo buono. Si fida facilmente delle persone e spesso non viene ripagato con la stessa fiducia. È un pregio essere delle brave persone, sia chiaro, ma nel mondo di oggi questa cosa può essere controproducente».

Di una persona però Sagan ha fatto benissimo a fidarsi, colui che secondo Slongo è stato il punto di riferimento in tutti questi anni di ciclismo e grande fama: il fratello Juraj. «Per Peter è stato fondamentale, la persona che lo teneva in equilibrio e metteva a freno la sua esuberanza. Per i tifosi può essere una figura marginale, ma per la sua carriera no. Senza dimenticare che è il motivo per cui Peter ha iniziato in bici. Un gioco, per seguire suo fratello».

Cosa lascerà al ciclismo? Slongo ne è sicuro. «Lascerà un grande vuoto. Lui ha portato un messaggio che bisognerebbe cogliere e che in parte è stato colto. Il ciclismo è uno sport tradizionale, ma può ringiovanirsi, può avvicinare le nuove generazioni. Peter è stato un personaggio, anche se non ha mai recitato, è davvero così. Comunque ha davanti a sé ancora un grande anno e sono sicuro si toglierà altre soddisfazioni».