Ricordando Davide / Morini: «Rebellin un esempio di umanità, il ciclismo lo ha dimenticato troppo in fretta»

Morini
Davide Rebellin e Fred Morini nel 2004
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Quando Fred Morini rimase vittima di un incidente in allenamento che sostanzialmente gli costò la carriera, Davide Rebellin era uno dei suoi compagni di squadra alla Gerolsteiner. Anzi, forse il compagno di squadra per eccellenza, quello più ascoltato e rispettato.
«Lui arrivò nella formazione tedesca dopo di me – ricorda Morini – ma si impose subito come il leader. Insomma, era Davide Rebellin: un faro, un riferimento. Lo ascoltavamo, lo prendevamo ad esempio. Non poteva essere altrimenti, alle spalle aveva già una carriera di tutto rispetto».

Cosa ti colpiva di lui?

«Intanto la professionalità. Viveva letteralmente per il ciclismo. Il modo in cui mangiava, dormiva, riposava. E poi la serenità. Non accusava la pressione, diceva sempre: dai, diamo il nostro meglio e vediamo quello che riusciamo a raccogliere. Di errori capitava di farne, ma lui non ci tornava mai sopra. Non sentiva il bisogno di sfogarsi».

Ti è rimasto vicino nei tragici giorni del tuo incidente.

«Uno dei pochissimi, se posso dirlo. Sparirono quasi tutti, lui invece intensificò la sua vicinanza nei miei confronti. Mi chiamò una prima volta dopo un paio di giorni, non è come oggi coi cellulari. E io poi stavo male, non potevo rispondere in un qualsiasi momento. All’inizio mi chiese come stavo. Dalla settimana successiva, invece, cominciò a telefonare quasi quotidianamente».

Cosa ti diceva?

«Mi faceva forza, mi ascoltava. Si preoccupava di me. Si informava: ma ti operano? ma ti trasferiscono? ma hai bisogno di qualcosa in particolare? Mi fece capire che potevo contare su di lui per un qualsiasi aiuto, anche di natura economica. Parlava con la dirigenza della Gerolsteiner, dicendogli che per nessun motivo dovevano dimenticarsi di me».

Purtroppo, poi, sei stato costretto al ritiro.

«E Davide era nuovamente accanto a me. Diventai il suo addetto stampa, mi diede un lavoro per ricominciare e non uscire dal mondo del ciclismo. Rimanere accanto a lui nei suoi anni d’oro lo considero un privilegio. Una bravissima persona che il nostro ambiente, purtroppo, ha dimenticato troppo in fretta».

Spiegati meglio.

«Davide Rebellin è stato un signore in un mondo falso e ipocrita. Non meritava di correre in formazioni di secondo piano, per tutto quello che aveva vinto e per il corridore che ancora era dopo i fatti di Pechino. Non ho paura di fare nomi e cognomi: Ivan Basso, che in carriera ha dovuto attraversare un momento difficile, ha riabilitato la sua immagine e adesso è considerato uno dei nomi di spicco del ciclismo italiano. Di Davide Rebellin, invece, si è tornati a parlare quando la sua carriera ha assunto i contorni del mito per la longevità. E purtroppo oggi, perché è morto».

Eravate rimasti in contatto?

«Per un periodo ci eravamo persi, poi invece il rapporto si era rinsaldato. Lo scorso fine settimana volevo raggiungere il Principato di Monaco per assistere al criterium organizzato da Trentin al quale era presente anche lui. Almeno saluto parecchi amici e magari rivedo anche Davide, pensavo. Mi avrebbe accolto col suo sorriso triste e discreto. Alla fine non ci sono andato, mi rimane il rimpianto di non averlo visto un’ultima volta».

Che ricordo serbi di lui?

«Una persona buona, un professionista inappuntabile, un amico che non ha mancato di aiutarmi e sostenermi nei giorni dell’incidente. Lui era Rebellin già allora, poteva lasciarmi perdere, ero soltanto un giovane professionista costretto al ritiro da un destino beffardo. Non lo fece. Ribadisco, mi dispiace che il ciclismo lo pianga oggi dopo averlo dimenticato e relegato in periferia per oltre dieci anni. Non lo meritava, né come uomo né come atleta. Non so se è giusto dirlo, ma lui e la sua ex moglie, Selina, facevano anche molta beneficenza. Avrebbe meritato una vita più lunga e più serena».