La parabola di Davide Rebellin tra successi, cadute e rinascite

Rebellin
Davide Rebellin in azione al campionato italiano dello scorso anno
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Se prendiamo per buono quello che si trova spulciando in giro, la circonferenza della Terra misura circa 40.000 chilometri. Un ciclista professionista, in capo ad una stagione, si ritrova ad averne percorsi non molti meno. E se c’era qualcuno che poteva lecitamente definirsi ciclista professionista, quello era Davide Rebellin. Considerando che era passato professionista il 5 agosto del 1992, tre giorni dopo la prova in linea delle Olimpiadi di Barcellona della quale era il favorito (Casartelli approfittò proprio di questa situazione per avvantaggiarsi e vincere), e considerando anche che comunque in bicicletta ci salì da bambino (a otto anni, nella Rebellin Market, la squadra che prendeva il nome dall’alimentari di famiglia e veniva guidata da Gedeone, il padre di Davide, scomparso all’inizio di luglio), si può stimare che Rebellin aveva completato il giro del mondo tra le venti e le trenta volte nell’arco della sua vita.

Un infinito girovagare che lo riportò quasi al punto di partenza. Rebellin, infatti, si ritirò alla Veneto Classic: il traguardo era fissato a Bassano del Grappa, a ottanta chilometri da San Bonifacio, dove nacque il 9 agosto del 1971. Appese la bici al chiodo otto giorni dopo Valverde e Nibali, rispettivamente di nove e tredici anni più giovani di lui (eppure così tremendamente vecchi per il gruppo guidato adesso dal più giovane campione del mondo dai tempi di Armstrong). Lo spagnolo passò professionista nel 2002, quando Rebellin era già considerato un corridore piuttosto esperto e uno dei più solidi e inconcludenti specialisti delle classiche. L’italiano, invece, arrivò nella massima categoria nel 2005, pochi mesi dopo la definitiva consacrazione di Rebellin: nell’aprile precedente, infatti, diventò il primo corridore della storia a vincere Amstel Gold Race, Freccia Vallone e Liegi-Bastogne-Liegi in una settimana. Allora andava per i trentatré anni.

A ritirarsi, quel giorno, non fu un simbolo, non fu una statua, non fu il figlio d’una epoca. Ma un corridore, assolutamente un corridore. Tra i professionisti vinse più di sessanta gare, sfiorandone probabilmente il doppio. Battagliò con almeno tre generazioni differenti di corridori: nel 1996 conquistò la sua unica tappa al Giro, vestendo poi anche la maglia rosa per sei giorni, battendo Tonkov, mentre la sua penultima affermazione nella massima categoria la centrò nel 2015 battendo Nibali alla Coppa Agostoni. Fece dell’allenamento uno stile di vita, trasformò il suo regime alimentare da carnivoro a vegetariano a più di quarant’anni, non smise mai di provare a migliorarsi nonostante non avesse più niente da dimostrare né grandi corse da provare a vincere. Ammirevole inizialmente poiché apparteneva ad un giovane di belle speranze, ad un certo punto la sua umiltà era diventata quasi patetica, retorica, stucchevole. Ma negli ultimi, essendo essa sincera e mai ostentata, finì col suscitare ammirazione: giacché dell’uomo si disprezzano sempre le mediocrità, mai le esagerazioni.

La parabola di Rebellin potrebbe rientrare a pieno diritto tra quelle dei romanzi di formazione, la cui banalità e ripetitività non ha certo impedito la diffusione. Non un romanzo d’appendice, non un feuilleton, dove il bene e il male sono fortemente caratterizzati, sempre riconoscibili e contrapposti. Perché Rebellin fu assolutamente anche un uomo, oltre che un corridore professionista, e questo comporta un’esistenza piena di fatti, di sensazioni, di reazioni. Il bene e il male si mescolano, le parole non sono sempre esatte (non lo sono quasi mai, a dire la verità), le emozioni si fanno liquide e incerte.

Il giovane Rebellin ammirava due corridori: Moser, carismatico e autoritario, quindi il suo opposto; e Bugno, già più vicino alle sue corde, fuoriclasse malinconico. Passò professionista con la Gb e prese come riferimento il più simile ed esperto dei compagni di squadra: Franco Chioccioli, un cane sciolto, tagliente ed essenziale, burbero per difesa, quasi come se ogni frase costasse dirla (e forse aveva ragione lui), da anni alla guida di una squadra dilettantistica toscana con una passione che solo gli introversi possono avere. All’inizio, non senza cattiveria, Rebellin lo chiamavano il chierichetto: perché non aveva mai nascosto il suo trasporto verso la religione, per l’aria mite e dimessa che lo accompagnò sempre, i più maligni sostengono per la paura di avvicinarsi e cedere ai vizi di un ciclismo che poggiava su farmaci e sostanze illecite. Ma il credere in qualcosa e in qualcuno lo avrebbe salvato nei suoi anni più difficili.

Nel 2004, ad esempio, non venne convocato né per le Olimpiadi di Atene né per i mondiali di Verona (praticamente quelli di casa) nonostante fosse stato uno dei protagonisti della stagione: secondo alla Parigi-Nizza, incontenibile sulle Ardenne (per la stampa sportiva diventò “Trebellin”), vicino al successo di tappa ai Paesi Baschi e al Giro, terzo a San Sebastian, primo al Melinda, secondo alla Placci. Tre settimane prima dei Giochi gli arrivò una lettera dalla Federazione: non sarebbe stato convocato per scelta tecnica. Stesso discorso poche settimane più tardi, a ridosso della prova iridata. Lui dell’Italia non voleva più saperne. Disse di conoscere il presidente della Federazione Argentina, avrebbe fatto il possibile per correre con loro. Ma gli mancava un documento, probabilmente il passaporto, e così la licenza argentina non arrivò mai in tempo. Furono in tanti a scagliarsi contro Ballerini. Persino Indurain, che dichiarò di non capire davvero cosa stesse succedendo nel clan azzurro, e soprattutto Bugno. «Fossi in lui correrei contro l’Italia – disse – Non è il modo d’essere trattati. Si può mai lasciare a casa per scelta tecnica il leader della Coppa del Mondo? Per me i primi cinquanta di questa classifica dovrebbero partecipare di diritto, figuriamoci il primo». Destabilizzato da tutte queste delusioni, tra Parigi-Tours e Giro di Lombardia Rebellin avrebbe anche perso la Coppa del Mondo: lo anticipò Bettini di soli tredici punti.

Ma il tempo passa e gli equilibri mutano e così Rebellin tornò a correre con la maglia azzurra. Alle Olimpiadi di Pechino conquistò l’argento, battuto soltanto da Samuel Sanchez. Ma nell’aprile dell’anno successivo il Comitato Olimpico Internazionale comunicò che il veneto era stato trovato positivo al Cera, l’Epo di ultima generazione. Il mondo ciclistico italiano reagì in maniera insolita. In un primo momento, infatti, in parecchi si schierarono dalla parte di Rebellin: Bugno, Cassani, Moser. Riccò gli manifestò vicinanza più di ogni altro, Bruseghin se ne uscì con una bella frase: «Finché tutto non sarà chiarito, mi avvalgo della facoltà di non crederci». Intanto a Rebellin venne tolta la medaglia d’argento, con lo spiacevolissimo primato (e fardello) di essere il primo italiano della storia delle Olimpiadi ad incappare in un dramma del genere. Tornato in gruppo nel 2011, sarebbe stato definitivamente assolto soltanto nel 2015: sia per il doping, sia per una presunta evasione fiscale (si parlava di sette milioni di euro). «La mia residenza monegasca è talmente fittizia – si lasciò sfuggire lui – che ci vivo con continuità e da tanti anni». Proprio a Monaco incontrò Françoise, sposata in seconde nozze il 17 maggio del 2014, la donna che gli cambiò la vita.

Rebellin, difatti, sostenne che lei gli aveva fatto capire che ormai era arrivato il momento di entrare in una nuova fase della sua esistenza. A quel punto si accorse di essersi concentrato troppo sul ciclismo e troppo poco su tutto il resto, si ricordò di essersi sentito un campione incredibilmente solo ed introverso. Se non fosse diventato un uomo diverso, non avrebbe continuato a pedalare fino a cinquantuno anni. Il purgatorio di Davide Rebellin cominciò nel 2011, ma sostanzialmente non finì mai. Nessuno, dopo i fatti di Pechino, si fidò né più credde in lui: prima reputato inaffidabile; poi, quando a suon di risultati stava cominciando a far ricredere i più scettici, considerato ormai troppo vecchio. Nell’ultimo decennio corse in Italia con la Miche, in Croazia con la Meridiana, in Polonia con la CCC, in Kuwait con la Cartucho, in Algeria con la Sovac, di nuovo in Croazia con la Meridiana e infine ancora in Italia con la Work Service. Corse ovunque, scalando salite più impegnative dello Zoncolan e incrociando centinaia di migliaia di tifosi che non sapevano chi fosse né cos’avesse vinto in Europa, trattandolo quindi alla stregua di un signore eccentrico che non vuole saperne di smettere. Di correre, s’intende: non di pedalare. «Non so stare senza bici per più di tre giorni – ci disse a marzo del 2021 – Se non pedalo mi stanco».

Avrebbe voluto ritirarsi prima, ma non con la tibia e il perone fratturati un anno fa. Magari non ha salutato sulle Ardenne o ad un mondiale, le corse a cui sognava di partecipare almeno un’ultima volta, ma comunque sempre meglio che sostenuto da due stampelle. Ritirandosi uscì finalmente dal suo purgatorio, dopo aver scontato una pena lunga dieci anni senza aver commesso alcun reato, ed entrò nel limbo, ovvero la nostra vita di tutti i giorni, fatta di una normalità sconcertante interrotta a tratti da qualche disgrazia e da qualche sparuto momento di gioia. Avrebbe avuto più tempo per stare nella natura, Rebellin: in questo periodo ad andare per boschi c’è da divertirsi, arriva l’autunno che tutto ripulisce. E poi, finalmente, non avrebbe dovuto più sorbirsi tutte quelle stupide domande che i giornalisti gli hanno fatto dal 2011 in avanti: com’è cambiato il ciclismo negli ultimi trent’anni, se fosse vero che lui si allenava seguendo le sue sensazioni e non la chincaglieria tecnologia (sì, è vero, casomai v’interessasse la risposta), se non si sentiva in imbarazzo a battagliare con corridori che potrebbero essere suoi figli.