Olivo è il nuovo che avanza: «Mi ispiro a Van der Poel, ma non avrei voluto lasciare il ciclocross»

Olivo
Bryan Olivo del Cycling Team Friuli in azione (foto: Cycling Team Friuli)
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Nonostante debba ancora compiere vent’anni (lo farà il 4 gennaio), sportivamente parlando Bryan Olivo ha già dovuto prendere una decisione dolorosa: quella di abbandonare il ciclocross, la sua disciplina preferita.

«Ne abbiamo parlato all’inizio dell’autunno dell’anno scorso – ricorda adesso – Stavo per lasciare la categoria degli juniores per approdare in quella degli Under 23 col Cycling Team Friuil. Boscolo è stato sincero e dettagliato: mi ha spiegato che pedalare su strada, in pista e nel ciclocross sarebbe forse stato eccessivo. Il salto tra i dilettanti è sempre delicato, a maggior ragione in questo periodo storico. Una riflessione che capisco, che trovo corretta».

Ma che, allo stesso tempo, ti è costata molto.

«Tantissimo, sì. Il ciclocross è la mia disciplina preferita da quando ho cominciato a pedalare. Boscolo e lo staff del Cycling Team Friuli lo sa, magari in futuro la situazione cambierà. Non credo nell’immediato, sinceramente. Il mio obiettivo, infatti, è vincere la cronosquadre dei campionati italiani in programma il primo ottobre».

Cosa ti piace del ciclocross?

«Tutto, molto banalmente. E’ emozionante, gli imprevisti sono dietro l’angolo, non ci sono particolari tattiche né momenti di risacca. E’ letteralmente parte di me, non esagero. Peccato che in Italia non ci sia un movimento particolarmente strutturato».

Spiegati meglio.

«E’ molto difficile sopravvivere di solo ciclocross. E’ normale che la possibilità di correre su strada faccia gola, così com’è naturale che alcuni crossisti si guardino intorno arrivando ad abbracciare anche altre discipline. L’Italia, purtroppo, non ha un movimento forte come quello belga e olandese».

Quindi hai deciso di concentrarti sulla strada pensando anche in prospettiva.

«Inevitabilmente sì, ma la mia non è soltanto una scelta di comodo, attenzione. Io ho sempre pedalato anche su strada. Ho vinto gare, conosco i corridori, ho seguito parecchie corse in televisione. Non arrivo adesso».

Chi sono i tuoi corridori di riferimento?

«Da piccolo stravedevo per Nibali. Mi piaceva pedalare in salita e lui, proprio sulle cime più prestigiose, ha costruito i suoi migliori successi. Poi, col tempo, le cose sono cambiate. Io ho capito d’essere un passista e l’amore per il ciclocross ha fatto sì che mi appassionassi a Van Aert e Van der Poel».

Chi preferisci dei due?

«Van der Poel: è irrazionale, imprevedibile. Uno spirito libero, un cavallo pazzo. Meno inquadrato di Van Aert, che ormai è uno dei capitani di una delle formazioni più forti al mondo. Corrono troppo? E’ vero, nel mio piccolo l’ho sperimentato anche io, certe stagioni sembrano non finire mai. Ma non bisogna dimenticare che non si tratta di dilettanti allo sbaraglio: la loro attività è intensa, ma comunque programmata e gestita».

Ti sei definito un passista. Ma ti aspettavi di chiudere al terzo posto la cronometro dei campionati italiani al primo anno tra gli Under 23?

«Non è stato un risultato a sorpresa. So di avere delle buone qualità e l’appuntamento tricolore l’avevamo preparato con cura. E poi, con tutto il rispetto per la prova in questione, non voglio illudermi: al via eravamo soltanto in quattordici e se Milesi non si fosse ritirato in seguito ad una caduta probabilmente sarei arrivato quarto, quindi fuori dal podio».

Ricordi la tua prima cronometro?

«Da allievo, arrivai quarto ed ero abbastanza contento. Seppur approssimativamente, avevo già intuito che quell’esercizio mi piaceva. Si addiceva alle mie caratteristiche. Riuscivo a gestirmi abbastanza bene, non temevo la solitudine. Né tantomeno lo sforzo da fare: ecco, se c’è una cosa che non mi fa paura è la fatica».

Quindi possiamo considerarti un attaccante?

«E’ quello che sono. L’ho imparato da Nibali, da Van Aert, da Van der Poel. Si può vincere anche rischiando, non è vero che attaccando da lontano si riducono le chance di successo, basta solo cogliere il momento giusto. E poi trionfare con un’impresa è più bello, tutto un altro sapore. Personalmente ne sogno due: alla Roubaix e al Fiandre, le mie due corse preferite. Ho ancora negli occhi le imprese di Boonen e Gilbert».

Ti sei messo in mostra anche al recente Giro di Slovacchia dei professionisti.

«Una bellissima esperienza coronata da alcuni ottimi risultati. Skerl ha centrato due piazzamenti tra i primi dieci, Andreaus è arrivato undicesimo nella 3ª tappa, De Cassan ottavo nella 2ª e decimo in classifica generale. Il Cycling Team Friuli è stato la prima continental, subito dietro alle World Tour e alle professional. Non mi pare di aver imparato nulla che già non sapessi, ma prestazioni del genere danno fiducia: siamo sulla strada giusta».

Anche se hai impiegato qualche mese per trovare uno stato di forma accettabile.

«Ero reduce da un buon inverno, ma purtroppo un problema ad un ginocchio prima che iniziasse la stagione ha rallentato il mio processo di crescita. So che Boscolo e il Friuli mi tengono in grande considerazione, così come sono consapevole del fatto che molti addetti ai lavori mi reputano un modello di multidisciplinarietà. Ma di certo non mi monto la testa. Ho ancora tutto da dimostrare, no?».