Faresin: «Ascolto mio padre e vado all’attacco per guadagnarmi il professionismo»

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Edoardo Faresin al Giro del Veneto 2022 (foto: © Photors.it)
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Da un certo momento in poi, nemmeno lui ricorda più quando con esattezza, Edoardo Faresin ha deciso che quello che gli altri pensavano di lui non era più un suo problema. Veniva considerato perché figlio di Gianni, ex professionista capace di vincere il Giro di Lombardia nel 1995 e il campionato italiano nel 1997? Correva grazie al cognome? Quand’era un ragazzino non si dava pace, poi ha cominciare a lasciar perdere.

«Io – racconta Edoardo – non sono in debito con nessuno. Mi alleno con scrupolo, lascio tutto quello che ho sulla strada e pur non essendo un campione direi che i miei risultati li ho raccolti. Ognuno pensi quello che vuole, io non ho il potere di far cambiare idea alle persone. E comunque chi sostiene che io corra grazie a mio padre evidentemente non conosce lui. E’ uno che parla poco, che ha la testa dura, che esige sempre il massimo: non mi pare il profilo di una persona disposta a fare parecchi favori».

Di suo padre ancora professionista, Edoardo ricorda perlopiù alcuni frammenti: quando vinse il Matteotti nel 2001 e a tre anni salì insieme al fratello sul primo podio della sua carriera; oppure quando il Giro del 2003 arrivò (13ª tappa) e partì (14ª) da Marostica, e lui andò a trovarlo insieme alla madre. Poco altro. Ma il piglio, quello sì, Edoardo non può scordarlo.

«Io mi reputo un corridore abbastanza testardo e resistente, ma quando ripenso a mio padre non ne sono più tanto sicuro. Aveva una grinta inesauribile, non mollava letteralmente mai e ogni problema era un’occasione per ribadire questa cocciutaggine e spostare i propri limiti un po’ più in là. E’ chiaro che la mia passione per il ciclismo è nata vedendolo correre e allenarsi, ma lui non ha mai influito sulle mie scelte. Cominciai a pedalare intorno a casa, come fanno tutti. Ma a spingermi alle gare fu mia madre, non mio padre. Lui, pur non ostacolandomi, non mi ha nemmeno incentivato. Rimaneva a distanza, si limitava a prendere atto: notava la mia voglia, ma allo stesso tempo sapeva quanta fatica mi avrebbe aspettato».

La prima gara in assoluto Edoardo non la ricorda. Gli è rimasto impresso il primo podio, a Stroppari, e la prima vittoria, a sette anni, verso Venezia. Stroppari è ad un quarto d’ora da Colceresa, il paese di Gianni, dove i Faresin sono tornati a vivere da cinque anni.

«Pur correndo da diverso tempo, la mia vita non è mai stata improntata soltanto sul ciclismo – spiega Edoardo – Quando sono a casa mi piace cucinare, stare all’aria aperta, aiutare mio padre tra l’orto e gli alberi da frutto che abbiamo: parliamo il giusto, come lui anch’io sono timido e introverso. E lo scorso novembre mi sono laureato in Ingegneria Biomedica. Alle superiori ho frequentato il classico, ma poi ho capito d’essere più portato per le materie scientifiche. Così mi sono iscritto all’università: diciamo che questa laurea è la mia prima alternativa se non dovessi passare professionista».

Un rischio molto concreto, purtroppo, e Faresin ne è pienamente consapevole. Una delle discriminanti è di ordine anagrafico: essendo nato l’11 marzo del 1998 e avendo quindi ventiquattro anni e mezzo, Faresin non può contare su quelle prospettive che tanta gola fanno oggi alle squadre professionistiche.

«E questo è un peccato, perché in nome del futuro si sacrificano tutte quelle doti apprese nel passato e spendibili nel presente – riflette Edoardo – Penso all’esperienza, al mestiere, all’affidabilità, alla capacità di prendere decisioni importanti in momenti difficili. Persino chi ha talento ha bisogno di tempo per apprendere certi meccanismi, figurarsi tutti gli altri. Però devo essere realista: non sono un fuoriclasse. Costante, regolare, completo: questo sì. Ma di corse ne ho accarezzate tante e vinte poche».

Quella a cui è più legato è la Coppa Collecchio del 2019: vinse grazie ad una stoccata nell’ultimo chilometro, alla fine tra i battuti alle sue spalle c’erano Konychev e Battistella.

«Stava per terminare la mia terza stagione tra i dilettanti, ero reduce da una marea di piazzamenti. Non mi sembrava vero. Quando a duecento metri dall’arrivo mi accorsi che stavo davvero per vincere, mi sentii subito più leggero. Una liberazione. Un anno prima, invece, conquistai la classifica degli scalatori al Giro d’Italia. Non avevo mai corso dieci giorni consecutivi senza riposo, non avevo la più pallida idea di cosa aspettarmi.

«Mi presentai al via con qualche dubbio, ma allo stesso tempo consapevole che nessuno mi chiedeva la luna. Andò benissimo. Entrai nella fuga della prima tappa, ripresa tra l’altro a poche centinaia di metri dall’arrivo se non ricordo male, e iniziai ad accumulare dei punti. Non mi fermai più. Fu una battaglia fino all’ultimo Gran premio della montagna. Battei Mäder di poco (sette lunghezza, ndr) e salii sul podio finale insieme agli altri protagonisti di quell’edizione: Vlasov, Almeida, Stannard, oggi tutti affermati professionisti. Fu gratificante».

Per rincorrere il professionismo, Edoardo Faresin corre come può: all’attacco. Nelle categorie inferiori era molto più accorto e calcolatore, poi Contador e le circostanze gli hanno fatto capire che muovendosi da lontano le chance di vincere non diminuiscono necessariamente.

«Io sono un passista-scalatore. Lo spunto veloce non mi manca, ma non posso paragonarmi a quei velocisti atipici o puri che costellano il panorama dilettantistico italiano. Ce ne sono tantissimi, anzi, arrivo a dire che la maggior parte degli Under 23 del nostro paese si descriverebbe proprio così: abile nel superare gli strappi e sufficientemente veloce per provare a dire la sua in una volata a ranghi ristretti. Insomma, per un corridore con le mie caratteristiche le chance di vincere sono poche. Sono quasi costretto ad andare all’attacco, sperando di trovare qualche buon compagno di avventura così da sorprendere i favoriti ed evitare un finale veloce».

Nonostante l’inerzia spinga in direzione opposta, Edoardo Faresin non ha ancora rinunciato al suo sogno di diventare professionista. A guidarlo dall’ammiraglia, oltre a Filippo Rocchetti, c’è suo padre, Gianni. La maglia è quella della Zalf, la squadra di cui Edoardo ha sempre fatto parte (tranne nel 2020, trascorso alla Casillo).

«A casa siamo padre e figlio, in allenamento e in corsa io sono uno dei suoi atleti. Siamo una coppia rodata, ormai ci muoviamo con naturalezza. Non c’è imbarazzo, non ci sono fraintendimenti. Se mi sono dato una scadenza? Mi piacerebbe dire che i sogni non ce l’hanno, ma mentirei. Io amo questo mestiere, fare fatica in sella ad una bici non mi rimane indigesto e nell’ambiente mi trovo bene, anche se non sono tutte rose e fiori, si capisce. Partecipare alle classiche delle Ardenne e portare a termine il Tour sono le mie speranze più grandi da quando sono bambino, e quindi non le voglio ancora abbandonare.

«Quest’anno sono arrivato quindicesimo all’Adriatica Ionica Race, terzo al Giro del Veneto e alla Firenze-Mare e diciannovesimo al Friuli, ma non credo basti. Ci vorrebbe una bella vittoria, questo sì. Però prima o poi dovrò prendere una decisione. Tanto tempo fa promisi a me stesso di non proseguire oltre i quattro anni da Under 23, ma poi la pandemia e una stagione piena di infortuni come quella passata mi hanno fatto cambiare idea. Se risuccederà? Non saprei davvero cosa rispondere».