Caso Vingegaard. Elisabetta Borgia: «Il ciclismo è cambiato, è sempre più difficile gestire vittorie e sconfitte»

Vingegaard Jonas
Jonas Vingegaard acclamato come un re nella sua Copenaghen, in maglia gialla
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Vincere non è mai semplice e dietro c’è sempre molto di più della semplice prestazione sportiva. Raggiungere quel risultato, gestire la pressione, saper rispondere al bombardamento mediatico immediatamente successivo e, ancora di più, ripetersi per dimostrare che quel successo non è stato casuale. Non è un caso che alcuni media danesi (e non solo) abbiano parlato di stress post-traumatico per Jonas Vingegaard dopo il suo trionfo al Tour de France.

Dopo aver parlato con Paola Pagani, mental coach di grande esperienza nel mondo dello sport, ci siamo affidati alle parole di Elisabetta Borgia, psicologa del team Trek-Segafredo maschile e femminile e della federazione italiana, per saperne di più sia sull’aspetto mentale degli atleti sia sul ruolo sempre più importante di questa figura entrata a pieno titolo negli staff delle squadre.

Elisabetta, partiamo da quanto successo a Vingegaard. Molti lo hanno definito “stress post-traumatico”.

«È il termine giusto. Vingegaard è un ragazzo che ha sempre vissuto una vita tranquilla in Danimarca, non è mai stato un personaggio. È partito dal basso e in pochissimo tempo si è ritrovato a essere il ciclista più rappresentativo, quello capace di vincere il Tour de France. Diventa un trauma, perché l’atleta si sente invaso nella propria sfera».

Come si lavora con un atleta che ha appena subito questo trauma?

«Io lavorerei aiutandolo a mantenere il focus su di sé. Sai, la mente processa una cosa alla volta e l’attenzione si lega ai pensieri. Dovrebbe restare concentrato sul presente, circondandosi di persone di cui si fida e fare un po’ muro. L’obiettivo è riportare il controllo all’interno della persona».

Elisabetta Borgia, psicologa del team Trek-Segafredo e della nazionale italiana

Qui si spiega anche la scelta di Vingegaard di non farsi vedere alle corse subito dopo il Tour, nemmeno nella sua Danimarca…

«Esatto. Io dico sempre ai miei atleti che il nostro serbatoio di energie psicofisiche non è infinito. Se noi consumiamo parte di questa energia sull’aspetto mentale, anche il nostro corpo ne risentirà. Ecco perché bisogna entrare in un ottica di on/off: è bene staccare per recuperare energie. Soprattutto in un mondo come quello del ciclismo dove l’off è sempre meno, è prezioso trovare dei momenti di pausa».

Come è cambiato il mondo dello sport?

«Il mondo dello sport, in generale e non solo il ciclismo, ha avuto una evoluzione estrema negli ultimi anni e sempre più aspetti sono diventati delle variabili all’interno della prestazione degli atleti. L’aspetto mediatico è sempre più importante, le stagioni sono sempre più lunghe e gli strumenti di controllo sempre più invasivi. La vita dell’atleta è più agiata, quello sicuramente, ma allo stesso tempo deve essere anche personaggio, simpatico e possibilmente anche bello. Ciò porta a un livello di stress molto grande con difficoltà a livello emotivo. Ecco che entra in gioco la psicologa o, in altri casi, la mental coach».

Come si sviluppa il lavoro della psicologa?

«Innanzitutto si conosce e si analizza l’atleta in tutte le sue forme, si delinea un profilo emotivo con punti di forza e aspetti che invece devono essere migliorati. Insieme si lavora su delle strategie per raggiungere determinati risultati. Si tratta di un percorso, a volte anche lungo, che porta a un miglioramento. Non è che il giorno prima della gara si scambiano due parole e tutto si risolve, non funziona così. Gli atleti inoltre hanno vite complesse, sono spesso fuori, e non è facile mantenere un rapporto continuativo e duraturo. Poi c’è tutto l’aspetto di team building».

Prima abbiamo parlato di vittorie, come si gestiscono invece le sconfitte?

«Anche quello non è un percorso semplice, specie nel mondo d’oggi dove l’atleta “sconfitto” deve fare i conti con i social, gli hater e i leoni da tastiera che sanno solamente criticare. L’atleta è molto condizionato da questo perché i telefonini sono diventati parte integrante della nostra vita. È importante non dare peso alle parole degli altri».