GIRO DONNE / Alessandra Cappellotto, presidente del Cpa: «Dietro l’exploit del movimento italiano non solo i talenti, ma anche il lavoro fatto dall’ex Ct azzurro Dino Salvoldi»

Alessandra Cappellotto, presidente del Cpa femminile alla partenza di una tappa del Giro Donne
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Alessandra Cappellotto è sempre stata una leader. Lo era da ciclista negli anni ’90 quando regalò all’Italia il primo titolo mondiale nel 1997 a San Sebastian e continua ad esserlo adesso nel suo ruolo di presidente del Cpa femminile, il sindacato internazionale delle cicliste, da lei fondato nel 2017. Al Giro Donne alla vicentina di Sarcedo, 53 anni, non sfugge nulla. Anticipa la corsa segnalando nella chat con i direttori sportivi se ci sono situazioni pericolose, è in contatto con le atlete pronta a risolvere tutti i problemi, ma sempre con un profilo basso: a volte le basta uno sguardo per capire come sta una ragazza. E questo Giro Donne non poteva iniziare in modo migliore, con la campionessa del mondo Elisa Balsamo in maglia rosa dopo le prime tre tappe.

Così nel giorno in cui la carovana rosa si trasferisce dalla Sardegna a Cesena, analizziamo con Alessandra la crescita del movimento femminile italiano, che di certo non l’ha sorpresa. «Abbiamo avuto la fortuna – spiega Cappellotto – di avere dei preparatori e mi riferisco in particolar modo all’ex commissario tecnico della nazionale, Dino Salvoldi che hanno fatto la differenza. Con il lavoro che ha fatto Dino vivremo di rendita per una decina di anni».

Ma sono arrivati anche dei bei talenti.

«Certo, abbiamo la fortuna di avere ragazze forti, che hanno il wattaggio nelle gambe come si dice in gergo, però bisogna essere allenate bene e il lavoro che è stato fatto negli ultimi è stato importantissimo. A questo bisogna aggiungere una campionessa come Elisa Longo Borghini che ha trainato il movimento e quindi in tante hanno cercato di emularla. Poi è arrivata questa bellissima maglia iridata che, in un periodo in cui il sistema WorldTour è consolidato, significa essere leader nel mondo».

Adesso riusciamo a sostenere la sfida con le olandesi…

«Finalmente, è da anni che ci facevano tribolare. E attenzione, i successi nelle classiche sono arrivati da ragazze che conoscevamo bene. Cavalli non è certo una scoperta di questa primavera: viene da anni buoni e vincendo Amstel e Freccia ha ottenuti risultati bellissimi ma non inaspettati. Lo stesso discorso vale per tante altre ragazze brave: basti guardare ai Giochi del Mediterraneo, per non parlare della pista che è un altro fiore all’occhiello dell’Italia».

Secondo te il ciclismo femminile italiano è nel suo miglior momento?

«Spero che sia solo l’inizio e che questo periodo positivo possa continuare per qualche anno».

Due settimane dopo la fine del Giro Donne torna il Tour
organizzato da Aso…

«Il primo Tour che io corsi nel 1988 (vinse Jeannie Longo davanti alla nostra Maria Canins, ndr), era organizzato da Aso. Si correva l’ultima parte della tappa degli uomini, erano frazioni abbastanza brevi, 50-70 al massimo si arrivava a 100 chilometri, ma era bellissimo perché sulle strade c’era tanta gente. Avevamo chiesto ad Aso di riproporre quella combinazione, ma i tempi sono cambiati: bloccare la viabilità per due gare era improponibile. Ma è stata bella la scelta di far partire le donne nel giorno in cui finisce il Tour degli uomini, una staffetta splendida».

Nel ritorno del Tour c’è anche il tuo zampino…

«Quattro anni fa ero andata a Parigi con Laura Mora, il segretario generale del Cpa, per chiedere più attenzione per il ciclismo femminile. Due anni fa Aso ci ha chiamato, chiedendo di collaborare con loro: volevano notizie, suggerimenti, proposte. In pieno covid abbiamo iniziato una serie di incontri con scadenza mensile su Zoom finché si è arrivati all’annuncio».

Certo che il montepremi di 250.000 euro è qualcosa di mai visto
nel ciclismo femminile.

«A dire la verità le atlete sono interessate al montepremi solo in seconda battuta e lo hanno detto in una delle prime riunioni un paio di anni fa mentre si parlava con Prudhomme dei premi. Le ragazze hanno detto subito: a noi interessa la visibilità. Il vero cambiamento è dato dalla diretta in televisione, e da lì che arrivano i soldi».

Come dar loro torto…

«Le ragazze che corrono adesso sono brave, intelligenti, colte. Quando vedo la foto del comitato direttivo delle atlete del Cpa, mi viene da inchinarmi. A cominciare dalla sudafricana Ashleigh Moolman Pasio, una vera leader. La Spagna ha Mavi Garcia, anche lei molto partecipe. Per l’Italia c’è Sofia Bertizzolo una ragazza giovane ma con una personalità incredibile: quando facciamo i comitati direttivi o gli incontri con il presidente dell’Uci, Lappartient, fa domande precise e schiette e vuole anche le risposte. Molto brava».

Alessandra, oltre ad essere la presidente del sindacato delle cicliste, hai fondato anche un’altra associazione: Road to equality.

«Sì, perché il Cpa Women aiuta le elite del professionismo, ma mi ero accorta che mancava qualcosa per i Paesi in via di sviluppo. Avevo conosciuto durante i miei viaggi alcune realtà molto belle: la nazionale della Nigeria, le ragazze del Ruanda, ci sono giovani interessanti in Costa d’Avorio, in Marocco e poi ero venuta in contatto con le ragazze dell’Afganistan. Insomma serviva un’associazione specifica per queste ragazze ed ecco che è nata Road to equality che mi ha consentito di poter aiutare le cicliste dell’Afghanistan quando hanno avuto bisogno di salvarsi la vita».

Un impegno che ti ha portato a vincere il premio “Sport e diritti umani” di Amnesty International.

«Quel riconoscimento è stata una sorpresa che mi ha lasciata confusa e incredula. Quando l’ho ricevuto è stata una delle emozioni più belle
della vita, quasi come la vittoria al mondiale…».