Le paure e i sogni di Cantoni: «Inseguo il professionismo mentre Siboni mi racconta chi era Pantani»

Cantoni
Andrea Cantoni in una foto d'archivio al Giro d'Italia U23
Tempo di lettura: 5 minuti

Ogni volta che escono insieme in bicicletta, Marcello Siboni racconta ad Andrea Cantoni chi era Marco Pantani. Quella volta che si arrabbiò coi meccanici perché la sella non era come la voleva lui; oppure quell’altra, poveretto, quando stava preparando il Giro e una macchina lo investì; perché, quando chiese a Roberto Conti quando arrivava il pezzo duro della Marmolada ignorando d’averlo sotto le ruote proprio in quel momento? Insomma, Siboni da ex compagno di squadra ricorda, racconta e tramanda. E Cantoni, che arrivato al quarto anno tra i dilettanti ha bisogno di lasciarsi ispirare da personaggi del genere, ascolta.

«Io sono nato nel 2000, l’11 settembre, un anno prima del crollo delle Torri Gemelle e qualche mese dopo l’ultimo, irresistibile Pantani sulle strade del Tour. Di lui non serbo nessun ricordo, nemmeno sbiadito. Però dalle mie parti, Cesena e dintorni, è rimasto nell’aria. Non so come spiegare chi è per me Pantani: è un mito, una leggenda, quasi come se non fosse realmente esistito. Credo che sia la stessa cosa che alcune generazioni prima della mia hanno provato nei confronti di Coppi, anche lui morto giovanissimo».

Come Pantani, anche Cantoni subisce il fascino delle salite. Ma a differenza sua, essendo più alto (1,78 contro 1,70 circa) e più pesante (66 chili, Pantani al suo apogeo oscillava tra i 55 e i 57), deve necessariamente definirsi un passista-scalatore e non un grimpeur puro. Agli scatti preferisce il ritmo (possibilmente il suo), alle accelerazioni altrui risponde con un’oculata gestione dello sforzo.

«Le prime due salite che mi vengono in mente sono il Colle delle Finestre e lo Zoncolan: fanno parte dei miei ricordi televisivi d’infanzia, su quelle rampe mi tornano in mente tante battaglie memorabili e altrettanti pomeriggi passati a tifare e a sognare. Alle classiche preferisco i grandi giri, non ho dubbi. Con una sola eccezione: la Parigi-Roubaix, che per me rappresenta l’apoteosi e l’essenza del ciclismo. Un corridore non può definirsi tale se non ha partecipato almeno una volta a quella gara. La Roubaix mi ha segnato talmente tanto che per diversi anni ho tifato soltanto Cancellara, che non c’entra niente né con le salite né con me. Io in pianura mi difendo, lui scavava dei solchi. E le sue azioni da finisseur erano impressionanti».

Tuttavia Cantoni omette un particolare non da poco: che una discreta azione da finisseur l’ha realizzata lui stesso non più tardi di dieci mesi fa sulle strade della prima tappa del Giro d’Italia Under 23. Quando ha accelerato a nove chilometri dall’arrivo, nessuno dei tre compagni di fuga è riuscito a seguirlo. Sul traguardo, oltre alla gloria di giornata, ad aspettarlo c’era anche la maglia rosa.

«La frazione partiva da Cesenatico e arrivava a Riccione, vi lascio immaginare la felicità mia e della InEmiliaRomagna, nella quale ho militato fino allo scorso anno. Quel giorno non volevo rimanere nell’anonimato del gruppo, allora mi sono detto: sono le strade di casa mia, qualcuno è pure venuto a tifarmi, mi faccio vedere in testa e magari punto ai due Gran Premi della Montagna. A febbraio m’ero fratturato la cresta iliaca, arrivai al Giro con pochissime corse nelle gambe, non mi aspettavo niente.

«Tuttavia, col passare dei chilometri, dentro di me maturò una strana e ingiustificata sicurezza: che quella tappa l’avrei vinta io. Non ho mai faticato tanto ad addormentarmi quanto quella sera. Nelle categorie inferiori mi dicevano d’aspettare, di non spendere troppe energie: e io invece ho bisogno d’attaccare, di muovermi da lontano. Per questo devo ringraziare Coppolillo, che alla partenza di quella famosa tappa ci disse: divertitevi e provateci».

Per quanto con lui si sia trovato bene, Cantoni quest’anno ha preferito cambiare. Di buone mani in buone mani, visto che ha scelto la Petroli Firenze-Hopplà-Don Camillo di Matteo Provini. Il suo obiettivo è passare professionista, anche se cerca di pensarci il meno possibile.

«Provini me lo ha detto fin da subito. Non devo logorarmi quotidianamente, non serve a niente chiedersi in continuazione se passerò professionista o meno. Lui è fatalista. Se è destino, mi ripete spesso, allora succederà, altrimenti no. L’importante è impegnarsi al massimo, ma da questo punto di vista credo di essere inattaccabile: esco il giusto, mangio bene, mi alleno correttamente. E ai sacrifici che faccio ci penso il giusto e l’onesto. Prendere o lasciare, pedalare è questo, non puoi levare la fatica dal ciclismo. Io ho cambiato squadra perché avevo bisogno di nuovi stimoli, con la InEmiliaRomagna avevo l’impressione di non poter andare oltre e fare di più. Credo che fosse arrivato il momento giusto per separarsi».

Per descriversi, Andrea Cantoni usa soltanto due aggettivi, ma piuttosto indicativi: introversoalmeno in un primo momento», specifica lui) e sensibile. Non a caso, quando gli impegni glielo permettono gli piace rilassarsi con attività tutto sommato semplici e solitarie. Cucinare, cimentarsi nel barbecue, andare a pescare col padre. Così si distrae e non permette al suo sogno di diventare un tarlo. 

«Il fatto è che io vado in bici da quando ho sei anni e sono talmente appassionato di ciclismo che non riesco ad immaginare diversamente me stesso né il mio futuro. Però grazie a Provini sto migliorando. Prendo tutto con più leggerezza, riesco a godermi di più quello che faccio. Mi pongo dei traguardi intermedi, partecipo ad ogni corsa col coltello tra i denti senza fare figli e figliastri, e provo a cercare la continuità che mi è sempre mancata anche per qualche sfortuna di troppo.

«Purtroppo sono al quarto anno e non mi aspetta più nessuno. Di questo ciclismo non mi piacciono la frenesia, l’esasperazione e la confusione. Tra gli Under 23 ci sono le squadre di paese, le continental, la Bardiani e i vivai delle World Tour nei quali, fondamentalmente, ci si allena come dei professionisti. I racconti di Siboni che mi piacciono di più, per dire, sono quelli che trasudano semplicità. La mia impressione è che tutti, anche noi dilettanti, ci prendiamo troppo sul serio. Dicembre mi sembra ieri, invece siamo già ad aprile e io, per colpa di qualche acciacco, sono ancora lontano dalla forma migliore: devo darmi una mossa».

Il tempo invecchia in fretta, scriveva Antonio Tabucchi.