Aspettando Alessandro Santaromita: «Al primo anno tra gli allievi non finivo una corsa, adesso sogno la maglia a pois»

Santaromita
Alessandro Santaromita ha corso nel 2021 con la maglia del Velo Club Mendrisio.
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Giordano Talamona è il nonno, un anno e mezzo alla Molteni e uno alla Filotex, dal 1963 al 1965. Ivan Santaromita è lo zio, professionista dal 2006 al 2019 e campione italiano nel 2013. Mauro Antonio Santaromita è il padre, fratello maggiore di Ivan (tra i due ci sono vent’anni) e professionista dal 1986 al 1997, con la classifica generale del Giro del Trentino del 1989 come successo più prestigioso. 

Nonostante un albero genealogico del genere, Alessandro Santaromita sostiene che nessuno lo abbia costretto a fare il ciclista. Seguito e accompagnato invece sì, al massimo spronato nei momenti più difficili.

«Come ad esempio durante il primo anno tra gli allievi – ricorda Alessandro – Non finii nemmeno una gara: ero uno scricciolo, esile e fragile, tutti mi parlavano di questo sviluppo che doveva arrivare, che a momenti sarebbe arrivato, che era una questione di giorni. Un anno lungo e duro nel quale, tuttavia, ho capito d’essere fortunato: poter contare su una famiglia di ciclisti, avvezza a difficoltà simili, è stato decisivo. Non mi hanno mai dato consigli su allenamenti e tattiche, ma quelle poche parole dette al momento giusto mi hanno salvato. Alla fine quel benedetto sviluppo è arrivato: nel corso di un’estate son cresciuto di dieci centimetri e da quel momento in poi mi sono sentito più a mio agio».

Quella stagione non ha rappresentato l’unico momento in cui Alessandro Santaromita si è sentito diverso dagli altri. Inevitabilmente, almeno nel mondo del ciclismo, il suo cognome ha una risonanza diversa. Tutti si (e gli) domandano se questo Santaromita è figlio, nipote o comunque parente di quelli che correvano anni fa, di Ivan e di Mauro Antonio. E tutti, di conseguenza, si aspettano quantomeno gli stessi risultati del padre e dello zio soltanto perché è imparentato con loro.

«Se devo essere sincero – racconta lui – sono io che me la suono e me la canto: siccome ho questo cognome, penso spesso, devo fare di tutto per portarlo il più in alto possibile. O almeno, sciupare il meno possibile l’eredità che si porta dietro. Nessuno, che io ricordi, mi ha mai messo particolari pressioni per questo. Faccio tutto da solo: quando va bene sono al settimo cielo, quando va male sono arrabbiato nero. Sono cresciuto col ciclismo e con mio zio Ivan come riferimento, la testimonianza che con impegno e professionalità è possibile arrivare ai massimi livelli: per questo faccio fatica a digerire i passaggi a vuoto».

Santaromita: dal Velo Club Mendrisio alla Bardiani

Alessandro Santaromita non è Asbjorn Hellemose, il suo capitano al Velo Club Mendrisio, un ragazzo in grado di smaltire una delusione come una sbornia: gli basta una notte di sonno e il giorno dopo è come nuovo. Santaromita, invece, rimugina, perde la pazienza, si abbatte. Fa riecheggiare la frase di Paul Nizan, storico scrittore francese: «Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita». Alessandro ne compirà 22 il prossimo 11 dicembre.

«Dario Nicoletti, fondamentale per me averlo come direttore sportivo in queste ultime stagioni, me lo dice in continuazione: devi irrobustirti, farti più scaltro e vivere con più leggerezza certe situazioni. Se le cose non vanno come mi aspettavo, mi butto giù e rimango a terra per diversi giorni. Però, allo stesso tempo, mi basta entrare in una fuga per riprendere confidenza. E’ vero anche che in corsa mi capita di perdere la pazienza o di farmi prendere dall’ansia in alcune fasi di gara. Vorrei essere diverso, non lo nascondo, ma sono fatto così e devo prenderne atto. E non perdere tempo, perché alla Bardiani non mi aspetteranno per sempre».

I primi contatti coi Reverberi risalgono al maggio di quest’anno. Bruno chiese a Nicoletti se aveva uno scalatore da dargli, Nicoletti gli ha risposto di sì: Santaromita. Figlio di Mauro Antonio?, chiese Reverberi. Figlio di Mauro Antonio, confermò Nicoletti. Un mese più tardi, dopo il Giro d’Italia dei dilettanti, il contratto era già stato firmato. Alessandro ritroverà un gruppo giovane, tanti coetanei o giù di lì coi quali ha già battagliato negli ultimi anni. 

«Se dovessi basarmi su questa stagione – spiega – alle salite brevi ed esplosive preferisco quelle lunghe e costanti. Infatti al Giro di quest’anno mi sono distinto nelle tappe del Tonale e del Nevegal. Per ora mi piacciono di più le classiche, farei carte false per vincere la Tre Valli Varesine, la gara di casa, e il Giro di Lombardia. Dei grandi giri, invece, vorrei conquistare la classifica degli scalatori. La maglia a pois è un sogno che ho fin da quando ero bambino. E’ come se avessi fatto un patto con le fughe: io sono tranquillo soltanto se attacco, se faccio corsa di testa, se prendo il vento in faccia. A meno che non si tratti di aiutare un capitano, quando rimango in gruppo ho la sensazione d’aver sbagliato, di non trovarmi nel posto che mi compete, di dipendere troppo dal gruppo, cosa che io non voglio. O magari sono tutte illusioni, non saprei».

Lo scorso anno sembrava un’illusione anche il campionato italiano e invece Alessandro ha rischiato di vincerlo per davvero. Gli è scappato soltanto Aleotti, quel giorno il più forte per distacco. Lui è arrivato secondo, realizzando per la prima volta che i tecnici del Centro Mapei erano sinceri quando gli dicevano che i suoi valori ce li avevano in pochi, pochissimi. Alessandro ha iniziato a pensare da professionista da quel momento in avanti.

«Il Giro dello scorso anno fu un calvario, caddi tre volte ed ero tutto ammaccato. Nella penultima tappa vado all’ammiraglia per prendere le borracce e Nicoletti mi fa: non ti preoccupa e recupera al meglio, ché vinciamo l’italiano. Mi entra da un orecchio e mi esce dall’altro, rientro in gruppo e me ne sono già dimenticato. Il giorno della gara non mi sembra nemmeno di star bene, però gli altri si staccano e io sono sempre lì, la corsa si fa dura e io resisto. Aleotti era troppo forte, io ho sfruttato un attimo di stanca e sono scappato da solo, anche perché se fossimo arrivati in volata non avrei raccolto niente, non essendo io né veloce né esplosivo. Fatto sta che da quel giorno ho iniziato a credere di più in me stesso. Lo scorso inverno ripensavo costantemente a quella gara, di tanto in tanto lo faccio anche adesso. So che devo crescere, d’altronde ho poco più di vent’anni, non potete chiederci troppo. Però quello che mi aspetta non mi fa paura, o meglio, me ne fa poca: voglio partire, cominciare, provarci. Non vedo l’ora».