Adesso schiaffeggerei il me stesso di 10 anni fa: intervista ad Andrea Guardini

Guardini
Andrea Guardini in una foto d'archivio ai tempi della UAE Team Emirates
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Ora che l’aria si fa sempre più pungente e il maltempo non è un’ipotesi così remota, Andrea Guardini guarda fuori dalla finestra e tira un sospiro di sollievo. Si sveglia ancora presto, alle sette. Un’ora prima della figlia, Ayla Joy, due anni e otto mesi. Ma la differenza, adesso, è che Guardini non deve più vestirsi da corridore e allenarsi. E questo, stando alle sue parole, non gli manca per niente.

Forse tra un po’ di tempo la vedrai diversamente, Andrea.

«Sai, ho fatto della mia più grande passione un lavoro, mi sono affermato e conservo tanti bei ricordi. Però non rimpiangerò mai la decisione di fermarmi adesso».

Quando hai capito che era arrivato il momento giusto?

«Al recente Giro di Sicilia, appena tagliavo il traguardo provavo emozioni diverse dal solito, come se sentissi che una parte della mia vita era ormai finita. I velocisti hanno una sensibilità incredibile».

Cosa intendi?

«Che da quando è nata mia figlia ho iniziato a tirare i freni. Prima se vedevo un buco chiudevo gli occhi e mi ci buttavo, da qualche anno invece lasciavo che a farlo fossero gli altri».

Avrai perso diverse occasioni, allora.

«Senz’altro, ma in compenso sono tutto intero. Però non potevo andare avanti così, quando un velocista ragiona troppo e non si fa guidare dall’istinto deve smettere».

Lo hai fatto con qualche rimpianto?

«In linea di massima direi di no. Poteva andare meglio? Forse, ma non mi va di flagellarmi per le scelte che ho preso. Arrivo a dirti che prenderei di nuovo le stesse decisioni. I rimpianti che ho sono minimi».

Ad esempio?

«Non aver mai fatto il Tour, di conseguenza non essermi mai buttato nello sprint dei Campi Elisi. Per quanto riguarda le classiche del Nord, più che la Gand avrei voluto vincere lo Scheldeprijs».

Al quale è legato uno dei ricordi più brutti della tua carriera.

«Era il 2015, nel finale convulso mi toccai con altri due velocisti che non frenano mai: Bouhanni e Groenewegen. Buttammo giù mezzo gruppo, quella caduta mi ha segnato».

Fisicamente o emotivamente?

«Entrambe. Fermo per dodici giorni con quattro punti sul ginocchio, intorno a me la nomea di velocista pronto a tutto e dunque pericoloso. Non fu facile riprendersi».

Mai fatto un pensiero alla Sanremo?

«Giorno e notte, specialmente da giovane, ma io sono sempre stato un velocista puro, purissimo. In volata ho battuto Cavendish, Farrar, Kristoff, Boonen e Sagan, ma quando arrivava il momento di superare una salita erano dolori».

Che ricordi hai di quelle del Giro?

«Il giorno dopo aver battuto Cavendish, era il 2012, c’erano Manghen, Lavazè e la doppia scalata all’Alpe di Pampeago. Io ero solo, solissimo, in fondo al gruppo. Arrivai a 46 minuti da Kreuziger, a cinque e mezzo dal penultimo. Più di sette ore di agonia».

Però arrivasti.

«Ancora oggi la considero una grande soddisfazione, una delle più belle della mia carriera».

All’epoca il tuo direttore sportivo era Luca Scinto: qual era il vostro rapporto?

«Lui credeva molto in me e io lo stimavo, ci volevamo bene. Però eravamo entrambi sinceri e fumantini, lui ancora più schietto di me. Mi rimproverava faccia a faccia, io mi imbestialivo. Però, allenandomi, mi rendevo conto che le sue parole mi stimolavano perché aveva colto nel vivo».

Quali rivali ricordi con piacere?

«Cavendish e Kristoff, velocisti diversi ma di assoluto livello. Tante volte mi hanno battuto di pochi centimetri, qualche volta mi sono tolto lo sfizio di batterli».

E il tuo sprinter di riferimento chi era?

«Appeso in camera c’era il poster di Cipollini che vince la Sanremo, ma nella mia testa c’era Robbie McEwen: velocissimo, scaltro, un funambolo».

Sei passato professionista dopo 19 gare vinte in un anno: è stato un vantaggio o uno svantaggio?

«È un record per la categoria, credo resterà imbattuto a lungo e sinceramente ne vado fiero. Ero giovane e ambizioso, adesso mi rendo conto d’aver parlato troppo e di non aver trovato a volte le parole giuste. Adesso prenderei a schiaffi il me stesso di dieci anni fa».

Cos’hai capito?

«Che raramente si è il più forte, che ci sono anche compagni e avversari, che in una squadra ci sono meccanismi delicati e non si può fare sempre di testa propria, che non ci si può lamentare troppo».

D’altronde nel World Tour non vi manca nulla, no?

«Esatto, soltanto che io l’ho capito negli ultimi anni correndo nella Continental di Stefano Giuliani, che non finirò mai di ringraziare. È stata una bella esperienza, mi ha fatto capire molte cose».

In Asia hai trovato quella popolarità che in Europa ti è sfuggita.

«Sul palco del Giro di Malesia mi chiamavano Mister Langkawi, non posso dimenticarmelo. In Asia ho vinto tantissimo, pochissime salite e tante volate di gruppo. Ogni giorno intere scolaresche ci aspettavano sulla strada».

Insomma, di storie da raccontare ne hai…

«Quella volta che, alla Parigi-Nizza, presi talmente tanto freddo da non sentire più le mani per un bel po’. E quell’altra, alla Parigi-Roubaix, quando mi ritirai, la squadra mi disse di andare all’arrivo in bicicletta e io per sbaglio finii in autostrada. Potrò raccontare d’essere stato portato in commissariato dalla Gendarmerie…»