Zurlo: «La fatica? Se non la sento, vado a cercarla. Spero che qualche grande squadra si sia accorta di me»

Matteo Zurlo della Zalf, vincitore della prima tappa del Giro del Friuli
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In poco più di due mesi, dal 24 giugno al 5 settembre, Matteo Zurlo ha riportato sei vittorie. Quattro di queste sono arrivate in solitaria: Trofeo Rancilio, Trofeo Sportivi di Briga, Giro del Casentino e prima tappa del Giro del Friuli. Le altre due non rientrano in questo conteggio poiché figlie di somme e rilevamenti: ovvero la classifica generale del Giro del Veneto e quella degli scalatori di nuovo al Giro del Friuli. Se sono i fatti a permetterci di descrivere le persone, quali aggettivi usare per Zurlo se non sfrontato, spregiudicato e brillante?

«Io in gruppo proprio non ci so stare», prova a spiegarsi. «Mi reputo un passista-scalatore, quindi un corridore più resistente che veloce: cosa me ne faccio di aspettare, aspettare e aspettare, se poi corro il rischio d’essere fregato in volata? Io la corsa cerco sempre d’imporla, mai di subirla. Non mi piace, non lo sopporto».

Eppure, nonostante questo piglio, Zurlo afferma di non ispirarsi a nessuno: al massimo di prendere qualche spunto, di fare sua un’idea degli altri.

«Se dovessi fare due nomi, dico Alberto Contador e Peter Sagan. Non che mi riveda in loro, però sono due dei pochi campioni del ciclismo moderno che inseguivano il successo provando anche a dare spettacolo. Come se non pensassero soltanto per sé, ma anche al pubblico che li aspettava e applaudiva. Per il resto, non saprei cos’altro aggiungere. Apprezzo i generosi e gli inesauribili, ma non è che vado all’attacco perché in qualche modo m’ispirano i vari De Gendt o De Marchi. Io vado per la mia strada, che spesso e volentieri è quella della fuga».

Scegliendo l’attacco piuttosto che la difesa, è come se Zurlo volesse dimenticare e quasi scappare da un passato che non sempre è stato facile. Nel 2017, al primo anno tra i dilettanti, una spiacevole sensazione l’accompagna per tutta la stagione: il suo cuore non funziona regolarmente (regolarmente per una persona che vive una vita tutto sommato normale, figuriamoci per un atleta di buon livello).

«Tachicardia», ripensa Zurlo. «Quella prima stagione la ricordo lunga e faticosa. All’inizio del 2018 mi sottopongo ad un’ablazione, ma non basta nemmeno quella. Ce ne vuole una seconda alla fine di quell’anno. Ovviamente non ottengo il via libera per correre. Una stagione persa, insomma. Nel 2019 strappo due vittorie che mi rilanciano: tra Giro del Piave e Trofeo Cleto Maule-Gambellara mi arrivano dietro corridori come Marchiori, Zanoncello, Mozzato e Fiorelli, che attualmente corrono tra le Professional».

Matteo Zurlo della Zalf, vincitore della classifica degli scalatori al Giro del Friuli 2021

Nel 2020, si capisce, la pandemia, che ai dilettanti al quarto anno taglia le gambe. Per molti di loro, il 2021 potrebbe essere l’ultima spiaggia dalla quale provare a tuffarsi nel professionismo.

«Non posso nascondere la frustrazione: mi reputo un corridore affidabile, completo e vincente, come ho dimostrato quest’anno, e non ho ricevuto nemmeno un’offerta», ammette Zurlo. «Qualche chiacchiera su di me viene fatta, ma non si può mica sperare in un futuro d’alto livello sulla base di alcune voci di corridoio. Anzi, ogni giorno ripeto a me stesso di non fare l’errore di crederci troppo, altrimenti poi nessuno mi vuole e ci rimango male il doppio. Sono del 1998, il 1° agosto ho compiuto 23 anni e mai avrei pensato di poter essere ritenuto vecchio per qualcosa. A 23 anni non si è vecchi per niente».

Sembra di risentire le parole di Federico, uno dei suoi cinque fratelli, quello che gli ha trasmesso la passione per il ciclismo. Di quattro anni più grande, Federico sembrava un talento: nel 2012, tra gli juniores, arrivò settimo alla Parigi-Roubaix, quinto al Lunigiana e quarto nella prova in linea dei mondiali. A vent’anni era già in una Professional, l’americana UnitedHealthCare, mentre nel 2016, a 22 anni, lo ingaggiò la Lampre.

Dopo due stagioni di fughe, gregariato, qualche piazzamento e due vittorie (una in Cina e una in Giappone), una rapida e inesorabile discesa: tre anni con Stefano Giuliani, infine il ritiro al termine del 2020. Nelle ultime settimane del 2019 rimase invischiato anche nel progetto ungherese della E-Powers, nemmeno mai cominciato, però buona parte dei corridori messi sotto contratto restarono a spasso. Carriere sfortunate, errori di valutazione nel fidarsi di certe persone, un ciclismo nel quale è difficile rientrare una volta respinti ai margini.

«Per certi versi è una delle mie paure», racconta Zurlo. «Magari le squadre hanno già completato il loro organico ed è già troppo tardi, per fare un esempio. E io sono qui, che continuo ad allenarmi e a sognare che ogni giorno, ogni corsa, ogni attacco sia quello buono per strappare un contratto tra i professionisti».

Più classiche che grandi giri, più ciclismo che cucina (perché non può strafare, anche se è diplomato all’Alberghiero e pare sappia cucinare bene), più testardo che permaloso «anche se ogni tanto me la prendo», sicuramente competitivo, desideroso di vincere e mettersi in mostra.

«Per anni il ciclismo è stato quasi esclusivamente un divertimento, poi da juniores la situazione ha iniziato a farsi più seria e impegnativa. Ma ancora più elettrizzante, se devo essere sincero. Io le mie qualità le ho ben presenti e sono sicuro che ne avranno tante anche quei diciannovenni che passano professionisti: non ce l’ho con loro, non voglio arrivare a pensare che loro tolgono il posto a me. Se uno vuole la competizione, eccola qui: sono eventi che vanno messi in conto. Io so solo una cosa: che continuerò ad attaccare. Più che farmi vedere, e magari vincere un’altra gara, cosa posso fare?».

Matteo Zurlo dice che gli piacciono quelle corse in cui si fa fatica. Esiste una migliore dichiarazione d’intenti?