GIRO DEL FRIULI U23 / Donato Polvere, un uomo all’antica nell’ammiraglia della Aran Cucine-Vejus: «Chi si dimentica del Sud commette un grave errore»

Tempo di lettura: 4 minuti

Dal Giro del Friuli U23, l’intervista realizzata con Donato Polvere dell’Aran Cucine-Vejus.

«Allora ti racconto questa: Einer Rubio, che adesso corre con la Movistar e nell’ultima tappa della Vuelta a Burgos è arrivato secondo, l’ho cresciuto io. Veniva dalla Colombia e s’è ritrovato nel mio paesino, Pago Veiano, in provincia di Benevento, nel Sannio, praticamente tra Campania, Molise e Puglia. È stato tre anni con noi e insieme abbiamo sfiorato la vittoria del Giro d’Italia Under 23 nel 2019. Ogni volta che qualcuno lo avvicinava per fargli un’offerta, lui rispondeva: parlatene con Donato. Nonostante sia passato professionista, vive ancora a Pago Veiano e non gli manca assolutamente nulla».

Con questo cosa vuoi dire, Donato?
«Punto primo: il ciclismo, che rimane uno sport bellissimo, sta perdendo una certa genuinità. Rubio non era mica un alieno: era, ed è ancora, determinato, appassionato, rispettoso. Può darsi che non diventi un campione, quello è destino di pochi, ma è la testimonianza vivente che per fare il professionista non bisogna inventarsi niente».


Quando dici queste cose ti riferisci ai tuoi ragazzi?

«Ai miei o a quelli degli altri, che differenza fa? Quasi tutti sono figli del loro tempo. Però in Rubio, parlo di lui perché lo conosco bene, vedevo una determinazione e una capacità di ascoltare che tanti altri non hanno. Intendo chi è viziato, chi non è così appassionato: lui, che sapeva di avere un destino da rincorrere, è sempre stato impeccabile. «La mia casa in Colombia ha il tetto di latta», mi diceva. Capisci?».


Quindi i nostri ragazzi sono viziati.

«In linea di massima sì, ovviamente generalizzare ha poco senso. Io credo che quello dell’atteggiamento sia uno dei motivi per i quali la gran parte dei nostri talenti, arrivati ad un certo punto, o tornano indietro o comunque non vanno più avanti. Allo stesso tempo, tuttavia, mi verrebbe da dare una pacca sulle spalle a tutti loro: ma chi gliela fa fare questa vita con tutte le distrazioni che ci sono oggi?».


Anche nel ciclismo giovanile non mancano.
«Purtroppo no. Non fanno in tempo a mettere in fila tre risultati buoni, che arriva la Continental di turno che promette loro la luna e se li porta via. E su dieci ne viene fuori uno, forse due. Sai che c’è? Che io sono un uomo all’antica: ho dei tempi e dei modi diversi».


Ad esempio?

«Ad esempio mi faccio il segno della croce prima di ogni partenza, sono severo coi miei ragazzi, a volte tiro anche qualche scapaccione. Eppure non credo d’essere un retrogrado, un ignorante. Ho i miei difetti, certo, ma se dovessi stare al passo dei tempi in tutto e per tutto avrei il fiatone. Non m’interessa, ho la fortuna di condividere la stessa idea di ciclismo di Umberto Di Giuseppe, patron della squadra e figura storica del ciclismo giovanile italiano».


A proposito della vostra squadra, come sta la Aran Cucine-Vejus a questo Giro del Friuli?
«A inizio anno ti avrei detto benone, ora invece stiamo soffrendo. Dopo il Giro d’Italia si è inceppato qualcosa e stiamo ancora cercando di capire cosa. La sfortuna s’è fatta sentire: Lorenzo Ginestra, uno dei nostri uomini migliori, la scorsa settimana in Toscana ha sbattuto un mignolo su un guardrail e a causa della lacerazione di un tendine ha subito praticamente un subamputazione».


Da quanti anni sei il direttore sportivo della squadra?
«Da dodici. Ogni tanto mi dico: io fortunatamente non vivo sulla pelle di questi ragazzi, ho una famiglia e due figlie, potrei fermarmi. E invece vado avanti, perché la passione continua a sorreggermi. Quando vedo i miei ragazzi troppo impauriti oppure distratti, divento una bestia. Forse sbaglio, ma è il mio carattere: sono stato cresciuto in un altro mondo e in un altro modo, un po’ di severità e rispetto non guastano mai. E comunque in questi anni di soddisfazioni ce ne siamo tolte e tanti corridori diventati professionisti anche grazie a noi continuano a salutarmi e a ringraziarmi».


Siete la squadra di riferimento del Sud Italia. Come vivete questa responsabilità?

«È bella e triste allo stesso momento. È sotto gli occhi di tutti: il ciclismo si sta decentrando, ormai la base è in Lombardia e decidono tutto da laggiù. Sotto l’Umbria, sotto le Marche, c’è un movimento che fa una fatica tremenda a non affogare. Se non si allestiscono squadre e si organizzano corse, come si può sperare che un bambino si appassioni al ciclismo? Io mi appassionai così, vedendo passare una gara».


Sei stato corridore?
«Sì, una vita fa. E il ciclismo è sempre stato faticoso, allora come adesso, anche se nel frattempo sono cambiate molte cose. Adesso siamo qui al Giro del Friuli, la prima ora della seconda tappa l’hanno fatta a 51 orari di media. E dicono che siamo tra i dilettanti…».


Venire dal Sud nel ciclismo può essere considerata una difficoltà ulteriore?
«Vale lo stesso discorso di prima: non parlo in assoluto, ma dal mio punto di vista può esserlo, sì. Sai quante volte siamo andati a correre al Nord e ci hanno chiamato terroni e marocchini? Sai quante volte ho visto corridori e direttori sportivi comportarsi scorrettamente con me e con i miei ragazzi? Ma questo è un discorso più ampio, un problema italiano, non soltanto ciclistico. L’allarme che lancio è un altro: non fate morire l’attività meridionale, non vi dimenticate di noi».


Al Giro del Friuli come sta andando?
«Quando non arrivano i risultati s’impara comunque qualcosa e un ragazzo ha sempre tanto da imparare. Oggi a Piancavallo il migliore dei nostri è stato De Laurentiis, 23°, arrivato insieme a Matteo Zurlo. Ha solo 19 anni. Tra l’altro, le corse per me rappresentano la vacanza dal mio lavoro, ovvero l’abbigliamento sportivo che porto avanti con la mia attività, la Vejus. Adesso capite cosa intendo quando parlo di passione?».