Nieri: «Mi manda Balducci e sogno di vincere il Giro. Il professionismo? Sconvolgente, pedalo su strada soltanto da tre anni»

Nieri
Alessio Nieri della Mastromarco al Giro d'Italia U23
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«Mio padre, grande amante del ciclismo e amatore un paio di mattine a settimana, aveva un videonoleggio. Mi innamorai del Giro d’Italia e del Tour de France in questa maniera, guardando corse che non avevo mai visto e campioni che non avevo mai conosciuto. Ore e ore passate così, era chiaro che prima o poi avrei cominciato a correre». Alessio Nieri dà per scontata un’anomalia: sono dovuti passare circa dieci anni, infatti, per vederlo in un gruppo. Talmente sconosciuto nell’ambiente che all’inizio non riuscì a trovare una squadra nemmeno con l’aiuto di Gabriele Balducci, che di conoscenze nel ciclismo giovanile toscano ne ha a bizzeffe.

E quindi, Alessio, le tue prime corse furono in mountain bike.

«Mettiamola così, la mountain bike non l’avevo mai seguita, però intorno ai 16 anni mi venne una voglia di correre talmente esagerata che mi feci andare bene anche quella. Nei dieci anni precedenti, niente: avevo passato pomeriggi interi a rivedere vecchie corse, eppure non m’era mai passato per la testa di provarci in prima persona. Ho fatto nuoto, per dire, che col ciclismo non c’entra nulla».

Del periodo in mountain bike cosa ricordi?

«Non è passato molto tempo, parliamo di quattro o cinque anni fa. E allo stesso tempo non è durato tanto: mi divertivo, però nella mia testa c’era soltanto il ciclismo su strada, quello delle cassette e dei video che riguardavo. Di certo la mountain bike mi è servita per la guida del mezzo e per rompere il ghiaccio con l’attività: io nel ciclismo ho iniziato così, non posso dimenticarlo».

Quando sono arrivate le prime gare su strada?

«Nello stesso anno in cui cominciai, verso la fine. Partecipai ad alcune gare e per la stagione successiva trovai un posto nella Big Hunter, storica formazione toscana».

Qual è la prima emozione che ti viene in mente ripensandoci?

«Soltanto gareggiare in una corsa di paese mi riempiva di soddisfazione, mi pareva di sognare. Ricordo anche la paura di stare in gruppo, non c’ero abituato. Quale poteva essere il mio pane l’avrei scoperto l’anno dopo, in quel momento capii d’aver trovato il mio posto nel mondo».

Qual è il tuo pane, allora?

«Le salite. Pur non vincendo, alla seconda stagione tra gli juniores raccolsi tanti bei piazzamenti. Io ero uno nuovo, praticamente sconosciuto, uno degli ultimi arrivati. Eppure in salita andavo bene e intorno a me sentivo fiducia e stupore. Nella mia testa mi dicevo: pensa un po’, io scalatore come Pantani…»

E’ lui il tuo modello?

«Non potrebbe essere altrimenti. Pur non avendolo tifato in prima persona, ho recuperato praticamente tutte le sue corse più importanti e per me è stato, ed è tuttora, un’inesauribile fonte di coraggio e di bellezza».

Dunque le tue corse preferite non possono che essere Giro d’Italie e Tour de France.

«Più il Giro che il Tour: anche se è meno prestigioso, il valore affettivo compensa qualsiasi differenza. Così come preferisco le salite italiane: più lunghe, più dure, più selettive».

Solitamente gli scalatori che amano il Giro e il Tour sognano di far bene anche alla Liegi e al Lombardia.

«Ecco, io non sono uno di quelli. Ovviamente vorrei far sempre bene, si capisce. Però, anche se sono delle monumento, classiche come la Liegi e il Lombardia non mi interessano più di tanto. Più in generale sono le corse di un giorno a non affascinarmi molto. Il Giro, invece, è un’ossessione: spero con tutto il cuore di riuscire a vincerlo».

E la salita, invece, cosa rappresenta per te?

«E’ come se diventassi il protagonista di tutte quelle corse viste e riviste da piccolo. Quando si soffre in quel modo, quando si va così piano, mi pare che non ci sia più tanta differenza tra la mia sofferenza e quella di un campione. La salita, secondo me, annulla tutte queste differenze. E’ sempre appassionante, è sempre la prima volta. Se a bordo strada c’è anche il pubblico, allora sì che mi sembra di essere al Giro d’Italia…»

Quest’anno hai disputato per la prima volta quello degli Under 23. Soddisfatto?

«Mica tanto, volevo provare a fare classifica e invece abbiamo dovuto rivedere i piani abbastanza in fretta. Però è arrivato un piazzamento importante e significativo: settimo nella dura tappa di Andalo, praticamente nel gruppetto che si giocava il terzo posto a 40” dal vincitore, Ciuccarelli».

Quando hai capito di poter fare delle belle cose in salita?

«Dal secondo anno tra gli juniores, iniziavo ad essere corteggiato e apprezzato. La scorsa stagione, la mia prima tra i dilettanti, ho avuto un’ulteriore riprova battendo in una cronoscalata Alessandro Verre, ora come ora uno degli scalatori più promettenti del dilettantismo internazionale».

Non avendo ancora raccolto vittorie prestigiose, molti appassionati sono rimasti stupiti del tuo passaggio alla Bardiani. Come hai reagito?

«E’ assolutamente normale e comprensibile, io infatti nel ciclismo professionistico entro in punta di piedi. Io ho disputato una sola stagione intera da ciclista su strada: il 2019, la mia seconda tra gli juniores. Le ultime due, per ovvi motivi, non sono state le più lineari».

Allora ti consolerà avere molti margini di crescita.

«Penso di averne molti, me lo auguro. Anche se nel professionismo non c’è molta pazienza, io di fretta non ne ho. Per me è stato sconvolgente firmare un contratto con la Bardiani, faccio il corridore da qualche anno appena, cosa volete che me ne interessi dei record di Evenepoel e Pogacar? Li ammiro, li applaudo e ne prendo atto, con la consapevolezza che la mia storia è completamente diversa».

A partire da Mastromarco, l’ambiente in cui sei cresciuto negli ultimi due anni.

«Un luogo unico: piccolo e familiare ma allo stesso tempo pieno di passione e competenza. Siamo poche persone, il minimo dispensabile: alcuni corridori, un meccanico, un massaggiatore. E poi, ovviamente, Carlo Franceschi e Gabriele Balducci, le due anime della squadra».

Balducci è qualcosa in più di un direttore sportivo, no?

«Ci conosciamo da una vita, sua moglie e mia madre lavorano insieme. E’ stato lui a mettermi in bici. So che mi vuole bene e mi stima molto. Ma non vorrei far passare il concetto sbagliato: nessun favoritismo, alla Mastromarco siamo tutti sullo stesso piano, è un ambiente sereno e per niente velenoso. Non è che mi tratta coi guanti bianchi perché conosce la mia famiglia e siamo entrambi di Santa Maria a Monte».

I Reverberi, invece, che impressione ti hanno fatto?

«Estremamente positiva, per me il loro interesse è un onore e il progetto che hanno in mente mi convince. Bruno ha un carisma contagioso, ha messo subito me e Marcellusi (l’altro corridore della Mastromarco che passerà professionista con la Bardiani, ndr) sulla strada giusta. La mia ambizione è arrivare nel World Tour, ma sarò sempre grato alla Bardiani e farò di tutto per regalare loro qualche bella vittoria».

Alessio, per te il ciclismo è stato un destino oppure una scelta?

«Direi entrambe. Di talento credo di averne, per il resto devo essere io a metterci tutto il resto. Però è stata anche una scelta. Mi sono diplomato come designer prendendo il massimo dei voti, mi sarebbe  piaciuto proseguire all’università ma sarei dovuto andare a Milano. Troppo impegnativa, non ero convinto di poter seguire studio e carriera sportiva e quindi ho dovuto prendere una decisione. Quella giusta, ne sono sicuro».