Tokyo 1964, la pista azzurra domina i Giochi: fra Pettenella e Bianchetto uno storico derby per l’oro

Bianchetto
Bianchetto e Damiano sul podio alle Olimpiadi di Tokyo 1964
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Olimpiadi di Tokyo, ma non quelle attuali: per trovare il giorno più glorioso della pista azzurra nella storia dei Giochi bisogna risalire al 19 ottobre 1964. Nel pomeriggio, sull’anello in cemento del Velodromo di Hachiōji, il programma della velocità si concluse con una finale tutta italiana.

Di fronte, il venticinquenne padovano Sergio Bianchetto e il ventunenne Giovanni Pettenella, milanese di Affori. Entrambi dilettanti, come richiedeva allora il regolamento olimpico, ma tutt’altro che sconosciuti: Bianchetto aveva già vinto l’oro nel tandem a Roma 1960 (e di lì a poche ore avrebbe fatto il bis, in coppia con Damiano) ed era stato due volte campione del mondo; Pettenella aveva già benedetto l’edizione giapponese con l’argento nel chilometro da fermo, battuto solo dal talento di Patrick Sercu, futuro re delle Sei Giorni e razziatore di tappe al Giro e al Tour.

Il duello azzurro per l’oro era maturato al termine di un cammino reso difficile dalla eccezionale caratura degli avversari. Pettenella aveva ritrovato Sercu sulla sua strada, vendicando immediatamente lo scacco subito nel chilometro da fermo. In semifinale gli era toccato l’erculeo Pierre Trentin, campione del mondo in carica.

Il francese aveva muscolatura potentissima e qualche difficoltà a ripartire dopo lunghi surplace. Così Pettenella si inchiodò per ben 23 minuti sulla pista per stressare l’avversario. Il quale alla fine ruppe gli indugi, aumentò i giri e riuscì a resistere al ritorno dell’italiano.

Nella seconda prova, Pettenella evitò il surplace e lasciò in testa Trentin. Quando si fiondò dall’alto dell’ultima curva per superarlo, l’avversario lo chiuse un paio di volte cambiando traiettoria, in maniera giudicata irregolare. Tra le proteste francesi, la vittoria fu assegnata all’azzurro.

Nello spareggio, Pettenella cambiò decisamente tattica: partì in testa, accelerò progressivamente e si lanciò a pieni giri, vincendo nettamente. Trentin non la prese bene e tentò di picchiarlo dopo l’arrivo.

Anche Bianchetto ebbe bisogno della terza prova per piegare l’altro francese Daniel Morelon, futuro mito della pista olimpica, con tre medaglie d’oro e una d’argento nelle successive tre edizioni.

Mano a terra per due volte, Pettenella rischiò la squalifica. Ma il suo spunto fu irresistibile

La finale tutta in famiglia era quasi un inedito nella velocità olimpica. C’era un solo, lontanissimo precedente tra i francesi Taillandier e Sanz nei Giochi parigini del 1900. Pettenella ricorse di nuovo al surplace nella prima manche, ma la severa inclinazione della pista giapponese lo tradì, costringendolo a mettere per due volte la mano a terra. In caso di terza infrazione, sarebbe stato squalificato, perdendo clamorosamente anche l’argento.

Si ricominciò per due volte: nella prima prova valida, Bianchetto si portò in testa ma fu bruciato dall’avversario, che uscì benissimo dall’ultima curva. «Corri in modo semplice e non rischiare la squalifica», raccomandò il ct azzurro Guido Costa a Pettenella, e il corridore obbedì. Nella seconda manche, ancora Bianchetto in testa. Lo spunto dall’esterno di Pettenella fu limpido e potente; il veneto sembrò in grado di resistere sfruttando la traiettoria interna, ma alla fine dovette cedere al rush dell’amico-rivale, capace di volare negli ultimi 200 metri in 11 secondi e 8 decimi.

Nel 1968 fra i due un surplace di oltre un’ora! Poi Bianchetto svenne…

Quella di Tokyo non fu certo l’ultima grande sfida tra i due. Anzi, ce n’è una che viene ricordata più spesso della finale olimpica. Fu il duello che, ormai professionisti, Bianchetto e Pettenella intavolarono nel 1968 al Velodromo Ganna di Masnago, semifinale dei campionati italiani.

La prova, dopo qualche schermaglia, si bloccò su un surplace interminabile. Passarono i minuti: dieci, venti, trenta. Nando Martellini, incaricato della telecronaca per la Rai, non sapeva più come far passare il tempo. Il pubblico prima si spazientì, poi cominciò a tifare affinché il surplace durasse più tempo possibile. Non per masochismo, ma perché si era sparsa la voce che quel giorno poteva cadere il record mondiale di surplace, fissato qualche tempo prima da Antonio Maspes in 61 minuti esatti.

Un secondo dopo i 61 minuti ci fu un’ovazione, ma chissà quanto sarebbe ancora durata l’impasse se Bianchetto, a 63’05”, non fosse svenuto per la tensione. Così almeno raccontano le cronache dell’epoca, ma la verità potrebbe essere quella che lo stesso Bianchetto, qualche anno dopo, rivelò al giovane pistard Guido Dell’Aquila, oggi affermato giornalista e autore televisivo: «Ho fatto finta di perdere i sensi. Dopo un’ora e tre minuti abbondanti non avevo la forza neanche di muovere un dito. Se Pettenella fosse partito non avrei potuto dare neanche una pedalata. Allora mi sono lasciato cadere puntando sulla ripetizione della gara».

Per la cronaca, fu Pettenella a guadagnare la finale, nella quale fu a sua volta battuto da Giuseppe Beghetto, altro grande talento di un’epoca decisamente dorata.