Tokyo 2020 / Il Fuji Speedway attende il ciclismo olimpico: nel 1976 ospitò l’ultimo duello tra Lauda e Hunt

La locandina del film Rush, diretto da Ron Howard e uscito nel 2013
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Stavolta l’incubo è il caldo (ma c’è anche la minaccia di tifoni), 45 anni fa era il diluvio. Il teatro però è lo stesso: il Fuji International Speedway di Oyama, dove termineranno le prove in linea, e si svolgeranno interamente le cronometro delle Olimpiadi di Tokyo 2020.

Proprio lì, nel circuito sovrastato dal Fuji, la montagna più alta dell’arcipelago giapponese, andò in scena il 24 ottobre del 1976 una pagina memorabile dello sport mondiale: l’ultimo atto della sfida tra Niki Lauda e James Hunt per il titolo mondiale di Formula Uno, rievocata magistralmente da Ron Howard nel film “Rush” del 2013. 

La prova giapponese chiudeva una stagione ad alto tasso emotivo, segnata soprattutto dalla vicenda impressionante del campione in carica Niki Lauda, che dopo un inizio da dominatore aveva rischiato la vita nell’incidente del Nürburgring, rimanendo prigioniero della sua Ferrari 312 T2 in fiamme. Tratto in salvo da un pilota italiano, Arturo Merzario, l’austriaco ne era uscito con terribili ustioni e il volto sfigurato per sempre. 

La ripresa di Lauda fu un capitolo eroico: dopo 42 giorni era di nuovo in gara, con le ferite ancora non completamente chiuse, ma in tempo per difendere il suo primato in classifica dall’assalto degli avversari, primo tra tutti il playboy inglese James Hunt, su McLaren. 

Si arrivò dunque all’epilogo giapponese con una situazione in bilico: Lauda 68 punti, Hunt 65. In caso di vittoria di Hunt e secondo posto di Lauda, i due sarebbero finiti a pari punti, ma l’inglese l’avrebbe spuntata per il maggior numero di gran premi vinti durante la stagione. 

Il via sotto il diluvio e dopo due giri Lauda disse basta

Le condizioni meteorologiche erano a dir poco critiche: il giorno della gara, la commissione dei piloti, comprendente gli stessi Lauda e Hunt, si dichiarò contraria a gareggiare, salvo ripensarci su pressioni degli organizzatori. Si decise allora in segreto di prendere il via e fermarsi dopo un paio di giri, tanto per permettere agli organizzatori di salvare i contratti. L’accordo però arrivò alle orecchie delle case automobilistiche, che minacciarono ritorsioni contro i loro piloti.

La corsa ebbe inizio con un’ora e mezza di ritardo, in un diluvio epocale, nebbia e spruzzi di acqua altissimi tra una macchina e l’altra. Dopo due giri, il colpo di scena: Niki Lauda si fermava ai box e diceva basta. 

A quel punto, ad Hunt bastava il quarto posto per mettere le mani sul titolo. Le condizioni atmosferiche migliorarono via via e la gara andò fino in fondo. L’inglese ebbe i suoi problemi con le gomme e rischiò grosso, ma nel finale risalì dal quinto al terzo posto, superando il ferrarista Regazzoni, a cui avrebbero poi rimproverato un impegno non massimale per difendere il compagno di scuderia. 

«Paura dopo il Nürburgring? No, ma non volevo affidare la mia vita alla fortuna»

Hunt fu dunque campione mondiale, per la prima e unica volta della sua vita. Si parlò subito del dramma di Lauda, del suo blocco psicologico dopo il rogo del Nürburgring, ma lui negò con forza: «Il ricordo del Nürburgring non ha influito perché, come ho sempre detto, dell’incidente non ho alcun ricordo. C’è stato invece il diluvio, l’impossibilità di guidare, la scelta di non superare quella fascia di rischio che costituisce il mio limite di pilota. Non volevo affidare la mia vita alla fortuna»

Che non fosse vittima di blocchi e paure, lo avrebbe dimostrato l’anno successivo, portando di nuovo la Ferrari al titolo mondiale. Hunt, malgrado l’indubbio talento, sarebbe disceso in fretta dal podio, fino al ritiro a soli 32 anni, nel 1979. 

Quarantacinque anni dopo, tocca al ciclismo olimpico a Tokyo 2020 rigare di fatica e sudore le stesse strade. Il Fuji Speedway avrà certamente altre storie memorabili da raccontare.