Ora, che Alejandro Valverde coi suoi 41 anni sia un caso più unico che raro siamo tutti d’accordo. Tuttavia, pensare che Dario Pieri ne ha soltanto cinque in più di lui (è nato infatti nel 1975) fa un certo effetto, a maggior ragione se si considera che il toscano s’è ritirato nel 2006, ben 15 anni fa. E di questo, adesso che ha cambiato vita e che il ciclismo lo segue soltanto di rimbalzo, adesso se ne pente. «Avrei potuto vincere molto di più», dice lui.
Cosa te lo fa pensare, Dario?
«Prima di tutto i ritiri di Museeuw e Van Petegem, forse i due più grandi specialisti delle pietre che ho affrontato in carriera. E poi ero ancora giovane, sui trent’anni. Ero passato professionista soltanto nel 1997. Sì, se tornassi indietro non smetterei».
Perché prendesti questa decisione?
«Perché non ero più sereno. Mi resi conto che per molte persone ero soltanto un corridore in grado di poter vincere il Fiandre e la Roubaix, niente più. Io, poi, i giri di parole e le coltellate alle spalle non lo sopporto: son figlio di due contadini, sono abituato a parlare schietto».
Un tratto nobile, ma che raramente dà qualche vantaggio. Anzi…
«E infatti me l’hanno fatta scontare, a piccoli sorsi ma me l’hanno fatta scontare. E questo è un peccato, perché stiamo parlando dell’ultima parte della mia carriera. Io, per il resto, del ciclismo posso solo parlar bene. Ho tanti di quei bei ricordi…»
Ad esempio?
«Finché è in attività, difficilmente un corridore si accorge delle fortune di cui gode. Io ho girato il mondo, avevo chi mi serviva e riveriva, tutto organizzato e tutto spesato nel dettaglio. Per un decennio ho fatto una vita da privilegiato. Non dico nemmeno quella che tante persone normali fanno in ferie, perché anche queste in qualche modo te le devi pagare».
Quando ti sei accorto di tutto questo?
«Quando ho smesso e mi sono trovato catapultato nella vita normale: vale a dire alzarsi per andare a lavoro, spendere i propri soldi, mandare avanti un’attività, far parte di una famiglia. A prenderci le misure ho impiegato un paio d’anni, poi ho preso il via. E adesso sono contento».
Come hai fatto a ripartire?
«Il primo anno non ho lavorato. Poi, siccome bisogna arricciarsi le maniche, per tre o quattro anni ho montato porte, persiane, finestre e infissi. Dopodiché, essendo io cacciatore, ho messo in piedi un tiro al piattello insieme a mio padre. Andavamo a mangiare sempre lì vicino, ad una locanda gestita da due anziani. Quando si sono stancati, l’ho presa in gestione con la mia compagna. Viviamo a Montemiccioli, tra Val d’Elsa e Volterra».
E’ stata dura adattarsi?
«Molto, specialmente all’inizio. Ma sai cosa mi ha salvato? L’aver avuto molte altre passioni, attività e passatempo oltre al ciclismo: la caccia, la pesca, andare a funghi, verniciare, riparare motori e biciclette. Non ho mai vissuto soltanto di ciclismo».
Che è esattamente quello che ti hanno rimproverato in tanti.
«Sbagliando, però. Siccome ero robusto e discontinuo, di me si diceva di tutto: che non m’allenavo per giorni, che bevevo, che fumavo, che andavo a divertirmi. Tutte bischerate. Come avrei potuto, altrimenti, salire sul podio della Roubaix e del Fiandre, senza dimenticare un quinto posto alla Sanremo?»
Però che soffrivi il caldo è vero.
«Vero, verissimo, e infatti d’estate mollavo la presa. Non sto dicendo di non aver sbagliato, ma da qui a farmi passare per un poco di buono ce ne corre. Come mi diceva mio zio, «hai le spalle grandi e tonde»: e io mi facevo scivolare tutto addosso. Ma sbagliavo, tornassi indietro alzerei la voce molto più spesso».
A quale delle tue vittorie sei più legato?
«Alla seconda, una tappa della Tre Giorni di La Panne. Ero lassù con la nazionale, al secondo anno tra i professionisti, arrivai da solo. Alle mie spalle, staccato d’una manciata di secondi, Michele Bartoli. Comunque a parlare delle mie vittorie si fa presto, mi pare che siano quattro».
Bartoli che, a differenza tua, era attento a tutto quello che faceva.
«E come lui anche Casagrande e Ballerini. Quante volte Marcello Perugi, mio direttore sportivo tra i dilettanti, mi ha detto che assomigliavo proprio a Ballerini «ma con un po’ più di classe», perché a volte lui perdeva brillantezza e stantuffava».
E Ballerini cosa ti diceva?
«Se avessi il tuo fisico e la mia testa», mi diceva, «quanto potrei vincere».
Belle parole, no?
«Dipende dal punto di vista: da una parte mi diceva che fisicamente ero impressionante, dall’altra che avevo poca testa ed ero inaffidabile. Ma Franco era un grande, quando me l’hanno fatto conoscere e ho iniziato ad allenarmici insieme quasi non ci credevo».
Chi erano i tuoi corridori preferiti?
«Nessuno in particolare, ma Indurain e Ullrich li ammiravo. Perché? Forse perché, pur essendo piazzati come me, riuscivano a vincere il Giro, il Tour e la Vuelta. Io, al contrario, le salite le soffrivo da morire. Le avrei eliminate, tenendo al massimo i percorsi mossi. Io amavo soltanto le Classiche».
Qual è quella che sei andato più vicino a vincere?
«La Roubaix, mi ha battuto in volata soltanto il Van Petegem più forte che si sia mai visto, quello che una settimana prima vinse il Fiandre. Tra i corridori preferiti, ora che ci penso, ci metto anche mio padre».
Perché?
«Perché se sono diventato ciclista lo devo a lui, era lui che pedalava. E tutto quello che faceva mio padre, dovevo farlo anche io. «Tanto dura un mese e poi smette, come fa con tutto», diceva sconsolata mia madre. E invece è andata bene, sono rimasto in questo mondo per vent’anni».
Non hai mai pensato di rientrarci?
«No, una volta usciti è dura rientrare. E ormai ho la mia vita. Di una cosa sono sicuro: se rientrassi, mi dedicherei ai giovani. E soltanto con Gabriele Balducci, l’unico amico che il ciclismo mi ha regalato. Per me è come un fratello».
Com’è nata la vostra amicizia?
«Da piccoli partecipavamo alle stesse corse, ma lui era talmente forte che non mi considerava nemmeno. Piano piano sono migliorato anche io, ma ad avvicinarci è stata un’altra passione in comune: la caccia. Da lì in poi, un rapporto fantastico. Siamo stati anche compagni di branda al militare, per dire».
Si può dire che condividete anche la stessa visione del ciclismo? Semplice, pratica, essenziale.
«Sì, si può dire. Io, tra l’altro, continuo a vivere con la stessa semplicità che mi contraddistingueva da corridore. Ho le mie attività, vivo insieme alla mia compagna e alle sue due figli di 12 e 22 anni, porto avanti le mie passioni. Non mi manca mica niente».
E se avessi a che fare coi giovani, cosa diresti loro?
«Prima di tutto non gli insegnerei nulla, non credo d’esserne in grado. Cosa gli direi? Beh, che il ciclismo è talmente tanto duro che una distrazione ogni tanto male non fa. Se io fossi stato un operaio alla catena di montaggio probabilmente adesso avrei qualche classica in più, ma quanto avrei faticato nell’adattarmi alla normalità dopo il ritiro?»
E poi?
«Che il ciclismo dura poco, è una parentesi stupenda e irripetibile destinata a finire. Non è la vita reale. E proprio per questo, oltre che sfruttarla, gli direi anche di godersela».
Ma il ciclismo di oggi lo segui o no?
«Più no che sì, fortunatamente ho tanto lavoro e poco tempo per stare alla televisione. Ne parlo solo con Balducci, è lui che mi aggiorna su quello che succede. Dirò di più, secondo me il movimento sta meglio. Quando correvo ho avuto l’opportunità di conoscere qualche personaggio famoso che mi chiedeva: cos’è la Parigi-Roubaix? Ecco, io credo che questo oggi accada molto più raramente».