Balducci: «Io e Pieri ci siamo fatti bene e male a vicenda»

Balducci
Gabriele Balducci, direttore sportivo della Mastromarco.
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Nonostante vada per i 46 anni, Gabriele Balducci non sa ancora darsi una spiegazione del perché, una vita fa, il suo corridore preferito fosse Pedro Delgado. «Sono cose inspiegabili, me ne rendo conto – riflette – Forte era forte, vinse un Tour e due volte la Vuelta. Mi intrigava, sia nell’aspetto fisico che nel modo di correre, calcolatore prima di tanti altri. Riuscii persino a convincere mio padre a comprarmi un paio di Time, gli scarpini che indossava Delgado. Costavano tantissimo. Povero babbo, faceva l’operaio, non si navigava mica nell’oro…».

Un corridore veloce e adatto alle classiche come te che aveva come modello uno scalatore di razza?

«All’amor non si comanda, no? Comunque non mi piaceva solo Delgado. Quando sono cresciuto ho iniziato ad ammirare anche Mario Cipollini, col quale successivamente ho avuto la fortuna di correre insieme. E poi i campioni che vincevano le classiche del Nord: Museeuw, Van Petegem».

Perché in fondo le tue corse preferite erano le classiche.

«Senza dubbio, ogni volta ritornavo bambino. Sanremo e Fiandre sono quelle che ho amato di più, forse anche perché ero particolarmente adatto a quei percorsi: e infatti alla Sanremo sono arrivato due volte settimo e una decimo, al Fiandre chiusi quattordicesimo nel 2001. Con me nel gruppo degli inseguitori c’erano Tchmil, Bartoli e Museeuw».

Era soltanto una questione d’attitudine o c’era anche dell’altro?

«L’atmosfera, e non mi riferisco soltanto al pubblico e ai paesaggi. Penso a quella interna alla squadra: si andava al Nord e ci si rimaneva per venti giorni, si faceva gruppo, ci si conosceva tra di noi e s’imparava a conoscere il percorso. Per me era il periodo più bello dell’anno».

Se pensi a Sanremo e Fiandre hai qualche rimpianto?

«Sai, è facile dire adesso di sì, che potevo vincerle o quantomeno salire sul podio. Io non ero mica un campione, per dirti certe cose dovrei avere una bella faccia tosta. Se si parla di carriera, però, mi concedo un azzardo: qualche soddisfazione in più me la sarei potuta togliere…»

Cosa te l’ha impedito?

«Sarebbe più giusto dire chi me l’ha impedito».

Chi, allora?

«Io stesso, nel bene e nel male ho fatto tutto con le mie mani e con le mie gambe. Il talento non mi mancava, a ventidue anni e mezzo vinsi una tappa alla Tirreno-Adriatico battendo, tra gli altri, Sorensen, Konychev, Boogerd e Ballerini. Dopo il traguardo Gianni Bugno mi disse: “Complimenti, giovane”. Ero fuori di me dalla gioia, la giornata più bella della mia carriera».

E poi cos’è successo?

«Niente di particolare, mi sono sempre mantenuto su buoni livelli finché non ho smesso. E’ che d’estate mi perdevo, non riuscivo a rimanere concentrato e pensavo troppo a divertirmi. D’inverno, al contrario, ero un monaco: forse anche per questo con la bella stagione sentivo il bisogno di mollare la presa, non riuscivo a mantenere quella concentrazione per tutto l’anno. Non a caso sono sempre andato d’accordo con Dario Pieri».

Pieri e Balducci in ricognizione sulle pietre della Roubaix nel 2004.

Un altro che avrebbe potuto vincere molto di più.

«Glielo dico sempre e lui lo ripete a me. Ci siamo fatti male a vicenda, da un punto di vista prettamente atletico, ma quanto ci siamo divertiti insieme. Stiamo parlando di uno che è arrivato secondo al Fiandre dietro a Tchmil e secondo alla Roubaix battuto da Van Petegem. Lo considero un fratello, ci sentiamo spesso e volentieri».

Con gli anni, tuttavia, sei maturato fino a decidere di voler diventare direttore sportivo.

«Che questo ruolo non mi dispiaceva me ne resi conto negli ultimi anni della carriera, quando ero con Franco Gini all’Acqua e Sapone. Avevo già sorpassato i trent’anni, ero uno dei più anziani e con più esperienza della squadra. Gini, che si fidava molto di me, praticamente mi considerava una sorta di direttore sportivo in gruppo: parlavo alla squadra, prendevo parola alla radio, mi confrontavo con i corridori di riferimento delle altre squadre».

Quanto ha influito l’aver corso per Marcello Massini?

«Tantissimo, senza di lui non sarei diventato direttore sportivo e probabilmente nemmeno un professionista. Siamo dello stesso paese, Santa Maria a Monte. Quand’ero un ragazzetto e lo incrociavo, pensavo che un giorno sarebbe stato davvero bello correre per lui. Quel giorno arrivò quand’ero un dilettante».

Che ricordo serbi di lui?

«Lo frequento ancora oggi, abitiamo a un chilometro di distanza e a lui, nonostante abbia quasi ottant’anni, di tanto in tanto piace venire con me in ammiraglia a seguire i miei ragazzi della Mastromarco. Massini era duro, persino burbero e sergente di ferro, ma sotto sotto di una bontà incredibile. E quanti ne ha fatti passare. Per certi versi direi che mi ha salvato».

Addirittura?

«Come dicevo prima, a me il talento non è mai mancato. Finché ero con gli juniores mi bastava quello, una volta passato tra i dilettanti il talento puro non bastava più. Era necessario allenarsi in un certo modo e vivere il ciclismo con più criterio. Massini mi ha insegnato questo: che bisogna sempre puntare alla vittoria, consapevoli però che si vince soltanto quando si può; e, soprattutto, che nel ciclismo per raccogliere qualcosa si deve imparare a soffrire».

I dilettanti di oggi, secondo te, capiscono queste parole?

«A me il mondo di oggi non piace molto, chi mi conosce sa come la penso, però direi che tanti di loro hanno ben chiaro in testa cosa significa soffrire. Tanti altri no, ma sono quelli che arrivati ad un certo punto, dilettanti o professionisti, si perdono e smettono alla svelta. Secondo me i problemi dei ragazzi di oggi sono altri».

Quali?

«Credo che la realtà virtuale nella quale vivono finisca per isolarli. Insomma, mi pare di vederli spaesati e senza riferimenti. Avendo 45 anni ed essendo nato e cresciuto in un altro ciclismo, provo a far sentire loro tutta la mia vicinanza chiamandoli quasi tutti i giorni. L’idea del gruppo e dell’attaccamento, secondo me, rimane fondamentale. A me piace dire che il ciclismo è uno sport individuale di squadra».

E loro come rispondono?

«Li vedo spaesati, appunto. Non capiscono il mio atteggiamento. Sai quante volte di sfuggita ho sentito dire ad alcuni di loro: “Balducci mi chiama tutti i giorni, ma cosa vorrà?”. Se nel 2013 ho scelto Mastromarco, tuttavia, è perché ero consapevole che da queste parti una certa idea di ciclismo meno frenetico e più familiare fosse ancora possibile».

Ma se ci fosse la possibilità di ingrandirsi diventando una Continental?

«Personalmente sono un po’ scettico a riguardo, ma voglio essere preciso: a me non spaventa la squadra più ricca e più grande in sé, a me spaventano le storture che possono subentrare. E che già vedo intorno a me. Mi domando, per dirne una, perché Ayuso è alla Colpack e partecipa a certe corse invece di essere già tra i professionisti».

Che spiegazione ti sei dato?

«Che la Colpack, avendo un budget che magari sfiora il milione di euro, deve portare dei risultati che giustifichino questa spesa. E si può star tranquilli che uno come Ayuso li porta. Però stiamo parlando di risultati, non di progetto. Questo, ovviamente, è il mio punto di vista. E lo dico col massimo rispetto nei confronti della Colpack, che ho usato a mo’ di esempio: una grandissima realtà giovanile non soltanto del panorama italiano».

Qual è il ruolo delle Continental?

«Secondo me si sta facendo confusione. Parlare di dilettanti, Under 23, squadre tradizionali e squadre Continental vuol dire poco: bisogna parlare dei giovani e lavorare per il loro bene. Non allestire una Continental per mettersi in mostra, per attrarre i talenti più promettenti o per ingaggiare il nome di spicco che poi serve per piazzarsi e fare bella figura al Laigueglia o alla Agostoni».

Quindi la tua non è una bocciatura netta.

«Certo che no. Ciò che più amo di questo lavoro è la possibilità, ogni mattina, di scoprire e confrontarsi col talento puro dei ragazzi. Mi piace dargli la caccia, andarlo a cercare dovunque, anche dove nessuno guarderebbe. E per far questo, secondo me, avere una formazione dilettantistica tradizionale o una Continental non fa nessuna differenza».